da Leadership Medica n. 272 del 2009
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona
Articolo 1: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza". Articolo 3: "Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona". Era il 10 dicembre 1948 quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamava la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, da cui sono tratti questi due articoli. Sono passati sessant'anni. Le vicende storiche che l'hanno originata sembrano molto lontane: le esigenze teoriche che la sorreggono restano ancora aperte. Per celebrare l'anniversario di questa Dichiarazione possiamo scegliere la strada di percorrerne la genesi, oppure possiamo tentare un bilancio della sua efficacia nella trasformazione delle politiche occidentali. Possiamo anche valutarne la pretesa giuridica transnazionale e misurarne il peso nella successiva elaborazione delle varie carte dei diritti che hanno costellato e costellano la storia recente dell'Occidente. Possiamo, in altri termini domandarci: che cosa ha da insegnarci, oggi, in un contesto politico, culturale e giuridico enormemente trasformato, questa Dichiarazione? Non è difficile notare che la fine dei totalitarismi non è bastata ad impedire la violazione degli articoli 1 e 3.
Le legislazioni dei vari Paesi hanno interpretato in vario modo il riconoscimento della dignità umana e il diritto alla vita conosce sempre nuove restrizioni e reinterpretazioni all'interno delle politiche liberali, tese ad assegnare all'individuo una nuova sovranità sulla vita stessa.
La nuda qualità dell'essere umano, che dovrebbe bastare per suscitare lo spirito di fratellanza e garantire la sicurezza della vita non sembra aver trovato sufficientemente tutela nell'Occidente liberale che chiude gli occhi sulle striscianti, ma consolidate, forme di selezione prenatale e neonatale praticate in nome del criterio della salute, e si appresta, in vari modi e forme, a ridare voce a quella categoria della vita non degna di essere vissuta che echeggiò nell'epoca del nazismo.
Forse dovremmo tornare ad interrogarci non soltanto sull'origine del totalitarismo come vicenda politica, ma anche sulle teorie antropologiche di cui si è alimentato: non è detto, infatti, che quelle impostazioni che, già all'inizio del Novecento, avevano usato del pensiero di Darwin per alimentare le teorie razziali, celebrare il mito dell'autorealizzazione e coltivare la superstizione scientifica del miglioramento genetico dell'uomo, non siano in grado di vivere all'interno di diversi sistemi politici e di sopravvivere alla fine dell'autoritarismo stesso.
Il nazismo ha dato forma politica a teorie antropologiche che di per sé non hanno bisogno soltanto della violenza del totalitarismo per continuare a sussistere. La Dichiarazione del 1948 ci dovrebbe far pensare di nuovo sull'esigenza di dare un fondamento non soltanto verbale al riconoscimento della dignità dell'uomo: se, infatti, questo riconoscimento non trova radici più profonde rispetto al piano formale, se non si radica negli stili di vita e nelle prassi condivise della solidarietà, nulla vieta che la violenza e la discriminazione ingiuste, depurate dalle forme del totalitarismo, rientrino nel piano sostanziale delle scelte individuali, garantite da una legislazione che nel timore di riaprire una stagione autoritaria disattende gli stessi principi che stanno a fondamento dell'uguaglianza e della democrazia.
Adriano Pessina