da Leadership Medica n. 274 del 2009
In questi mesi, in Italia, si sta diffondendo, con una certa insistenza, un’immagine conflittuale del rapporto tra medico e paziente. Le prassi di cura e di assistenza, nei casi in cui non si può dare la guarigione, vengono guardate con sospetto e con diffidenza, si teme la prevaricazione della medicina e della tecnologia: ciò che finora veniva apprezzato come civilissimo impegno per custodire la vita dei pazienti che non sono in grado di provvedere a loro stessi, viene rappresentato come imposizione e mortificazione della libertà. Il modo con cui si affrontano le cure estensive (che cioè si protraggono per lungo tempo, senza possibilità di guarigione) è, in fondo, il modo con cui si affronta il tema della malattia e della sofferenza, nonché il modo con cui si pensa al valore della vita e dell’uomo stesso.
Per uno strano paradosso, il tema dei diritti dei pazienti sta emergendo come questione della difesa dei pazienti stessi rispetto non soltanto al cosiddetto paternalismo medico, ma all’idea ippocratica del compito del medico come responsabilità nei confronti della vita del paziente. In un certo senso, è come se, in nome dell’autonomia e dell’autodeterminazione, la responsabilità per la vita fosse rivendicata come compito esclusivo del paziente e il medico, e la medicina in generale, diventassero potenziali nemici di questa autonomia. Molte di queste tesi sono frutto di una pressione sociale che sta trasformando il diritto alla cura e alla salute in un diritto alla rinuncia, al di là di qualsiasi ragionevole considerazione sulla necessità di garantire sempre la libertà di scelta di trattamenti proporzionati ed equilibrati. La questione dell’eutanasia e del suicidio assistito, nel contesto delle società liberali, a differenza di quanto accadeva nel contesto delle società totalitarie, è infatti affrontato dentro la prospettiva dei diritti dei pazienti, che si estendono fino alla creazione di un impensabile diritto di morire.
Malgrado l’apparenza, questa impostazione affonda le radici in un certo vitalismo, cioè in una prospettiva che pone la vita come valore assoluto, ma si tratta di un vitalismo che ha come criterio di valutazione non la semplice vita umana, ma soltanto la vita ascendente, cioè la vita piena ed autonoma. Non è affatto una prospettiva nuova, anche se oggi è posta in relazione alla cosiddetta invadenza della tecnologia ed è alimentata dall’immagine di una artificialità considerata come lesiva della dignità umana. A questo proposito vale la pena di rileggere quanto scriveva nel 1888 Nietzsche a proposito della morale per i medici:
“Il malato è un parassita della società. In una determinata condizione è indecoroso continuare a vivere più a lungo. Il continuare a vegetare in vile dipendenza dai medici e dalle loro pratiche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe attirare su di sé, nella società, un profondo disprezzo. I medici, dal canto loro, dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo -, non ricette, ma ogni giorno una nuova dose di nausea di fronte ai loro pazienti … Creare una nuova responsabilità, quella del medico, per tutti i casi in cui il supremo interesse della vita, della vita ascendente, esige che si spinga giù e si scosti via via senza riguardi la vita che sta degenerando –(…) La morte scelta di propria volontà, la morte attuata nel momento giusto, in chiarezza e letizia, in mezzo a figli e testimoni: cosicché sia ancora possibile un reale congedo, quando colui che si accomiata è ancora presente, come pure una reale valutazione di quel che si è raggiunto e voluto, una somma della vita – tutto ciò in antitesi alla miseranda e orribile commedia che il cristianesimo ha fatto dell’ora finale. Non si deve mai dimenticare che il cristianesimo ha malignamente approfittato della debolezza del moribondo, per violentarne la coscienza, e della maniera stessa di morire, per dare giudizi di valore sull’uomo e sul suo passato. (….) Non è in nostro potere impedire d’essere nati: ma possiamo riparare a quest’errore – giacché talora è un errore. Quando ci si sopprime, si fa la cosa più degna di rispetto che esista: con ciò quasi si merita di vivere …”[1].
La crudele chiarezza di questi passi ha una sua specifica attualità perché pone in luce almeno due temi che sono presenti (anche se non sono certamente gli unici) nel contesto culturale odierno, segnato da una secolarizzazione diffusa, spesso più vissuta che pensata. Il primo riguarda il nesso tra l’esaltazione della vita autonoma, consapevole, piena, e la rivendicazione del diritto di rifiutare ogni altra dimensione del vivere, fino all’esaltazione della morte e del suicidio. Il secondo interpreta come frutto di decadimento e di imposizione religiosa ogni prospettiva di valorizzazione dell’umano anche dentro l’esperienza della malattia, specie laddove venga meno l’esercizio della coscienza. La dedizione per l’uomo malgrado la sua infermità (dove il malgrado indica che il valore sta nella persona, e non nella malattia, o nella sofferenza) è interpretata come algofilia, come una sorta di masochistica propensione ad amare la malattia, il dolore e la sofferenza. Per Nietzsche è perciò necessaria una trasvalutazione di tutti valori, cioè un cambiamento di prospettiva che riporti in auge il valore della vita come potenza e forza. Esiste di fatto una analogia tra questa impostazione e un certo modo attuale di pensare alla qualità della vita per decidere del valore e della dignità non soltanto del vivere e del morire, ma dell’uomo stesso, del suo nascere e del suo continuare ad esistere. Sebbene l’accusa formulata da Nietzsche nei confronti del cristianesimo sia infondata, perché nell’orizzonte della fede il valore della vita umana non è il criterio per amare la malattia o la sofferenza, ma per amare l’uomo nella certezza che dolore, sofferenza e morte non avranno l’ultima parola sulla pienezza promessa dentro l’evento della Resurrezione, resta il fatto che il cristianesimo è pensato e descritto come nemico della vita. Questa lotta contro il cristianesimo è, più in generale, una lotta contro l’immagine ippocratica della medicina, contro il convincimento che la responsabilità per la vita è una corresponsabilità, condivisa e alimentata dall’umanesimo solidaristico. Sarebbe certamente eccessivo, e sbagliato, interpretare la storia dei diritti dei malati secondo la prospettiva di Nietzsche, ma il richiamo a Nietzsche può servirci per riflettere su quali siano i valori di riferimento con cui la nostra società pensa di organizzare la propria immagine dell’assistenza sanitaria. Il linguaggio dei diritti, che finora ha custodito, almeno idealmente, ogni uomo dalla prevaricazione dell’ideologia vitalista, per lungo tempo coltivata nella prospettiva del darwinismo sociale, sembra oggi introdurre di nuovo elementi di discriminazione. La professione medica risente necessariamente dei valori di riferimento di una società e la questione della morale dei medici è una questione seria, perché ci riguarda tutti, come cittadini e come uomini.
Adriano Pessina
[1] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, Milano 2008, pp. 107-108 (§ 36).