da Leadership Medica n. 273 del 2009
Ennesimo neologismo che ha almeno il merito di porre in luce la necessità di stabilire un legame tra scienze empiriche del cervello e filosofia morale.
Lo sviluppo delle neuroscienze è in grado di fornire una rilettura scientifica dell'esperienza morale? Questa domanda fa da sfondo all'attuale e recente dibattito sulla cosiddetta neuroetica.
Ennesimo neologismo che ha almeno il merito di porre in luce la necessità di stabilire un legame tra scienze empiriche del cervello e filosofia morale. Per rispondere alla domanda iniziale occorre fare una premessa. Le scienze sperimentali e la filosofia, intesa come sapere rigoroso, hanno come compito quello di spiegare l'esperienza umana, che è sempre un'esperienza pre-scientifica. Da questo punto di vista, le scienze e la filosofia non potranno mai sostituire l'esperienza pre-scientifica, ma potranno sempre correggerne le ingenuità, spiegarne le caratteristiche, rafforzarla nella sua spontanea capacità di interpretare la vita e la storia.
Una visione puramente scientifica (o puramente filosofica) della realtà non ha propriamente senso qualora pretenda di sostituire l'esperienza di cui vuole essere una spiegazione. L'esperienza prescientifica, indubbiamente, potrà avvalersi delle conoscenze scientifiche e filosofiche, ma resterà in ultima analisi irriducibile a queste stesse spiegazioni. Così, è possibile conoscere nei suoi dettagli il cervello, ma resta pur sempre una conoscenza del cervello altrui, nel senso che il cervello di colui che studia il cervello resta pur sempre, come corpo vissuto, fuori dell'osservazione.
Per esperienza pre-scientifica non si deve intendere un'esperienza che viene storicamente prima dell'avvento delle scienze, ma quelle esperienze che gli uomini che fanno scienza e filosofia conducono sempre al di là dell'attività di ricerca e che cercano di illuminare con le loro ricerche.
Occorre perciò distinguere l'esperimento dall'esperienza e il modello interpretativo dall'originale che si vuole spiegare. Così, per fare un esempio, le neuroscienze ci aiutano a ripensare all'esperienza della libertà collocandola all'interno di una serie di condizionamenti concreti, ma non sono in grado, nelle loro spiegazioni, di eliminare l'esperienza diretta per cui ognuno può dire, in prima persona, di cogliersi come l'attore indiviso di determinate scelte, avvenute dentro una rete storica di condizionamenti.
Ed è interessante notare come gli stessi neuroscienziati che, in nome delle loro ricerche, affermano che la libertà non esiste, non esitano, nello stesso tempo a rivendicare la libertà di ricerca. Ma se non esiste la libertà come rivendicare la libertà di ricerca?
Questo ossimoro rivela un fatto: il modello con cui viene interpretata l'azione umana non è in grado di annullare l'esperienza prescientifica della stessa libertà, che affiora, appunto, quando si esce dall'esperimento e si entra nel vissuto dell'esperienza in prima persona. Alcuni anni fa, il filosofo Paul Ricoeur coniò l'espressione “scuola del sospetto” per indicare quelle teorie che cercavano di individuare delle cause che stavano, per così dire, alle spalle delle credenze umane. Marx, Nietzsche e Freud, infatti, hanno insinuato il sospetto che dietro alle nostre azioni e convinzioni agissero la condizione economica, la volontà di potenza, l'inconscio.
Oggi si sospetta che sia il nostro patrimonio genetico, o la nostra struttura cerebrale ad essere la fonte delle nostre scelte, delle nostre certezze. Ovviamente, questi condizionamenti dovrebbero valere anche per le teorie sostenute dai genetisti o dai neuroscienziati, a loro volta condizionati dal loro Dna o dal loro cervello. Non è necessario accusare di riduzionismo queste impostazioni, né di meravigliarsi troppo: da sempre l'uomo cerca di spiegare i condizionamenti della propria esperienza. Ma proprio questo allargamento delle conoscenze ci porta a constatare come l'uomo di fatto trascenda proprio i condizionamenti di cui sa dare spiegazione.
L'esperienza prescientifica trova nelle scienze e nella filosofia un utile antidoto a certe concezioni ingenue della condizione umana, ma continuamente le trascende. Il corpo saputo (sia esso letto con le tecniche della genetica o delle neuroscienze), non è altro che quel corpo vissuto che costituisce la base del nostro ragionamento.
Noi siamo il nostro cervello, il nostro Dna, il nostro inconscio, la nostra storia personale economicamente condizionata: il pensiero che pensa questi condizionamenti è il luogo dell'esperienza di un uomo che fa esperienza di un trascendimento che di fatto può essere spiegato con le scienze, ma che per essere compreso non può avvalersi soltanto di queste conoscenze.
Il confronto tra neuroscienza e filosofia è senza dubbio auspicabile, e di fatto ha già una sua lunga e controversa storia, ma esso è possibile soprattutto se esiste una chiarezza epistemologica che impedisca confusioni di piani e di problemi.
Di fatto l'essere umano, il suo comportamento, il suo linguaggio, sono oggetto di studio di discipline differenti, che vanno dalla storia, alla sociologia, alle psicologie, alla fisiologia, alla filosofia, alla biologia e alla neurologia.
Ebbene, di fronte ad un unico oggetto di studio, è evidente che ciò che fa la differenza è, per usare un termine classico, l'oggetto formale con cui si legge e valuta l'uomo, cioè il tipo di prospettive e il tipo di domande a cui si intende rispondere. Soltanto quando c'è chiarezza a questo livello è possibile stabilire il metodo adatto e porre in atto i criteri di verità o di verificazione che permettono di controllare la consistenza dei risultati conoscitivi raggiunti. Soltanto così si eviteranno un po' di pseudo-problemi, che sono spesso il frutto di una confusione di piani che finiscono con la formulazione di domande improprie, che risulteranno pertanto strutturalmente irrisolvibili.
Una spiegazione che distrugge ciò che si propone di spiegare non è mai una buona spiegazione. Per questo è legittimo sospettare della neuroetica.
Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica - Università Cattolica di Milano