da Leadership Medica n. 276 del 2009
Nel Mito di Sisifo, Albert Camus esordisce con questa affermazione: «Vi è solamente un problema filosofico serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia»[1]. Al di là dell’impostazione drammatica dell’interrogativo, ciò che Camus segnala, secondo un’accentuazione che la storiografia filosofica sembra attribuire soltanto alle varie forme dell’esistenzialismo, è il nesso tra la vita e la ricerca filosofica. Non è una relazione estemporanea, attribuibile, per così dire, soltanto ad alcune stagioni del pensiero filosofico: di fatto e di diritto la filosofia inizia dalla vita e si giustifica, come impresa teorica, in quanto sa dire qualcosa intorno al senso della vita. E parlare di “senso” della vita, significa, almeno in prima istanza, parlare del fatto che la vita di ognuno si muove lungo una direzione, più o meno rettilinea, più o meno coerente, che, comunque la si voglia interpretare e valutare, ha decisamente un inizio ed un termine: si dipana, di fatto, tra l’origine e la fine, tra la nascita e la morte. Ed è importante notare che nessuno di noi possiede l’esperienza del nascere né quella del morire. L’origine e la fine segnano di fatto la nostra passività, perché ci sappiamo esistenti quando ormai la nostra vita ha già una certa età e perché, anche se decidessimo di toglierci la vita, con la morte ci sottraiamo a noi stessi. Il problema che ognuno di noi è chiamato a risolvere, e che concretamente risolve esistendo, è, perciò, come impiegare il tempo che ci separa dalla morte. L’esperienza della nostra esistenza inizia quando, come osserva la Arendt, con « la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originaria»[2].
La parola e l’azione, segnano, ad un certo stadio della nostra vita, l’inizio di quella che chiameremo, in seguito, la nostra vita morale, cioè l’assunzione di un progetto di “senso”. La vita morale, infatti, non è altro che la modalità concreta con la quale ognuno di noi percorre un tratto della propria esistenza facendo scelte, più o meno motivate, e formulando valutazioni, cioè lodando o biasimando. In questo percorso, ci piaccia o no, noi costruiamo, giorno dopo giorno, la nostra personalità morale, definiamo, in modo più o meno coerente e consapevole, la nostra identità. La moralità è la modalità concreta con la quale ognuno di noi costruisce la propria identità personale.
Noi iniziamo ad agire e, quindi, a scegliere, prima ancora di sapere propriamente "chi siamo". Bastano le nostre generalità (l'appartenere cioè ad un certo, o incerto, ramo genealogico), per farci rispondere alla domanda "chi sei"? e basta l'essere inseriti in un contesto sociale, qualunque esso sia, per farci trovare i motivi in grado di farci rispondere alla domanda "perché hai scelto in questo modo?".
La nostra esperienza, a differenza di quanto potrebbe indurci a credere l’affermazione di Camus, non inizia con drammatici interrogativi esistenziali, e la nostra vita non scorre all'insegna di “problemi di senso", ma si dipana, tra intralci e soddisfazioni, tra passioni, desideri, sofferenze e gioie, all'interno di un "ambiente", culturale e linguistico, che si premura, per lungo tempo, di preservarci dalla fatica del farci troppi interrogativi e del cercare troppe risposte.
Drammi e lacerazioni, senza dubbio, sono facilmente registrabili all’interno dei vissuti nostri ed altrui, ma sarebbe azzardato fare generalizzazioni circa l’universale ricerca teorica del “senso” della vita, perché è sufficiente appartenere ad un tessuto sociale sufficientemente strutturato per assumere, come normale, e perciò, implicitamente come normativo, indicazioni di comportamento e modelli di azione e di valutazione.
Forse, la nostra pigrizia intellettuale dipende dal fatto che godiamo già di un'eredità culturale (più o meno meritata) che è il frutto della fatica del pensare e della costruzione di cattedrali di "senso" che i nostri predecessori hanno edificato anche per noi; possiamo anche osservare che questa eredità fruttifica anche oggi, laddove non è stata separata dalla ricerca delle ragioni per conservarla e svilupparla; possiamo fare molte osservazioni, ma nessuna può smentire un fatto, molto semplice: noi, oggi, non siamo prima di tutto alle prese con la costruzione del senso della vita, ma con la chiarificazione di "quale" senso della vita ci è stato consegnato.
Noi, infatti, iniziamo a riflettere sulla nostra esistenza, iniziamo a porci interrogativi e, magari, a dar luogo a svolte radicali, quando la nostra esistenza si è già dipanata dentro scelte, azioni, reazioni; i primi interrogativi, perciò, riguarderanno i convincimenti che abbiamo, per così dire, "succhiato" con il latte materno, e che hanno condizionato la nostra stessa percezione del problema dell’esistenza. Tutte le volte che nella medicina noi curiamo qualcuno, ci prendiamo cura della sua esistenza, gli salviamo la vita, noi non rispondiamo alla domanda sul senso della vita, ma permettiamo che questa domanda non sia definitivamente troncata dalla malattia, dalla morte, dall’indifferenza. Il medico, nella sua professione quotidiana, forse anche senza saperlo, risponde alla domanda di Camus permettendo che la risposta non sia soffocata dalla morte. Dare senso, cioè significato e direzione ad una pratica come la medicina significa, in ultima analisi, offrire una possibilità all’emergere del senso dell’esistenza, che costituisce l’invisibile ma solido legame che unisce gli uomini. La vita, in fondo, vale sempre la pena di essere vissuta proprio perché porta con sé una domanda che la trascende.
Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica - Università Cattolica di Milano
[1] A. Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, Milano…, p.205.
[2] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1999, p. 127.