da Leadership Medica n. 267 del 2008
“Pazienti operati senza motivo, ricoveri inventati, rimborsi gonfiati ai danni della Regione Lombardia, medici che pensano solo ai soldi”: questo è l’incipit con cui inizia un articolo che riporta tutte le accuse rivolte ad alcuni medici della Clinica Santa Rita di Milano. Un dossier impressionante, in cui si menzionano interventi ingiustificati, morti sospette, approssimazione clinica e una certa dose di cinismo. Un fatto di cronaca locale che però rimette in discussione l’immagine della medicina italiana.
I mass media hanno coniato un’espressione, “clinica degli orrori”, che mette in evidenza la gravità delle accuse, ma risulta ingenerosa rispetto a quei medici e a quegli operatori sanitari che, nella stessa clinica, hanno svolto con serietà il loro lavoro. Non si tratta di accusare il servizio pubblico che si avvale di strutture private, o, al contrario, di vedere in questo scandalo una forma di attacco alla sanità convenzionata, ma di mettere in luce le responsabilità personali, dirette e indirette, e il clima di sottile indifferenza, se non di esplicita omertà, che a volte determina una reale complicità tra medici virtuosi e medici senza scrupoli. Senza dubbio bisogna, come sempre, distinguere le colpe individuali e occorre che gli accertamenti si concludano per poter emettere un giudizio definitivo. Ma tutto ciò non può costituire un alibi per non esplicitare una questione seria, che, al di là del tema dei controlli, riguarda l’immagine della professione medica. Di fatto l’opinione pubblica è spesso investita da due immagini contrapposte: quella del medico buono per definizione, che si impegna per i suoi malati, che fa ricerca con soli scopi terapeutici, e quella del medico cattivo, che investe tutta la sua competenza ed abilità soltanto per la sua realizzazione professionale e usa la medicina e gli stessi pazienti per scopi di natura economica. Due immagini speculari, che si annullano, impedendoci di cogliere un problema generale, quello della formazione della classe medica e del nesso che esiste tra formazione tecnica e formazione etica del medico. Persone disoneste e senza scrupoli, purtroppo, esisteranno sempre, ma colpisce il fatto che possano annidarsi proprio dentro una professione che, nell’immaginario collettivo, dovrebbe essere il prototipo della moralità in quanto dedita al bene e al benessere degli uomini.
Lo scandalo milanese può essere “salutare” per tutti non soltanto se in tempi rapidi permette di individuare tutti i colpevoli ed assegnarli alla giustizia, ma se riesce ad aprire, all’interno della professione medica, una seria riflessione sulla natura, gli scopi e il ruolo che dovrebbe avere l’ordine dei medici. L’opinione pubblica percepisce di fatto un atteggiamento corporativo che, in nome della giusta distinzione tra responsabilità personali e professione medica come tale, tende a non cogliere i segni di un malessere che va al di là delle situazioni di abuso e di delinquenza ordinaria. Molti cittadini, infatti, si domandano a che cosa serva un ordine deontologico che tende a lesinare sanzioni e censure nei confronti dei propri iscritti e si limita ad agire soltanto dopo la conclusione degli iter della giustizia ordinaria.
La questione è seria: se si incrina il rapporto fiduciario tra medici e pazienti non soltanto si moltiplicano le cause civili e penali intentate contro l’operato dei medici, anche quando non esistono comportamenti scorretti, dovuti a imperizia o negligenza, ma la stessa dinamica terapeutica ne risente. Non si può curare ed essere curati dentro un clima di sospetto.
Forse l’Ordine dei Medici, che non vuole diventare il poliziotto di se stesso, potrebbe però dare un segnale chiaro se incominciasse a preoccuparsi di fornire momenti di riflessione sulle questioni etiche di base ai suoi iscritti, tornando a riflettere e a far riflettere sugli aspetti della relazione medico paziente, sulle doti umane oltre che intellettuali che costituiscono il patrimonio di un’arte che non è una scienza naturale (anche se si avvale di conoscenze scientifiche) perché ha come oggetto, nella mediazione del corpo umano, una persona umana.
Mentre esistono continui aggiornamenti sulle tematiche scientifiche, si sviluppano giornate di studio sulle questioni dedicate alle allocazioni delle risorse e all’economia sanitaria, si ritagliano alcuni spazi sulle tematiche della bioetica di frontiera, non ci sono momenti di formazione sistematica sulle tematiche antropologiche ed etiche che permetterebbero al medico di guardare alla propria professione anche con quello sguardo umanistico che, all’inizio della storia della medicina, tendeva a cogliere un nesso non casuale tra sapere filosofico e arte medica. Non si tratta soltanto di sapere di più sull’uomo che è oggetto della medicina, ma sullo stesso uomo che è soggetto dell’arte medica e che spesso dimentica che domani potrebbe essere lui l’oggetto di quell’arte che non sempre esercita con la dovuta consapevolezza. La formazione umana di chi si occupa della malattia degli altri uomini non basterà ad eliminare abusi e ingiustizie, ma forse servirà a spezzare quella forma di sottile superficialità ed indifferenza nei confronti dei pazienti che, anche quando è un sistema di autodifesa dalla pressione esistenziale esercitata dal continuo contatto con il dolore e la sofferenza umane, non può mai avere una legittimazione morale e professionale. Un segnale dell’ordine dei medici in questo senso aiuterebbe a capire che deontologia è il sapere che riguarda non soltanto ciò che un uomo deve fare, ma ciò che deve essere.
Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica - Università Cattolica di Milano