da Leadership Medica n. 5 del 2003
Quando non si può fare nulla per la malattia emerge con prepotenza la centralità dell'uomo e la necessità di una relazione interpersonale adeguata.
Alcuni mesi fa ho avuto modo di ascoltare una relazione di un medico americano che si occupa di cure palliative. Prendersi cura dei malati terminali significa confrontarsi quotidianamente con l’esperienza del dolore e della sofferenza di persone che non possono riporre la speranza nella guarigione, e che chiedono altre forme di speranza, altre forme di solidarietà.
Non è facile comunicare serenità a chi deve fare i conti con la propria condizione di mortale. Non è nemmeno facile esercitare la professione di medico in queste situazioni, perché occorre ripensare a fondo gli scopi della medicina fissati e propagandati da un certo ottimismo scientista. Quando non si può fare nulla per guarire la malattia emerge con prepotenza la centralità dell’uomo e la necessità di una relazione interpersonale adeguata.
Si sono scritti e si continuano a scrivere molto libri sul tema del rapporto tra il medico e il paziente.
La proliferazione di questi libri può essere interpretata in due modi: come segno di una nuova maturità e consapevolezza o, invece, come risposta al declino dei rapporti umani, spersonalizzati in nome dell’efficienza e della suddivisione dei lavori e dei compiti.
C’è poi da chiedersi quanto influiscano, concretamente, tutte queste riflessioni nell’ambito della prassi concreta e quotidiana.
Quel medico americano aveva esposto con chiarezza e con profondità tutti i principi morali che stavano alla base della sua professione, e tutti gli accorgimenti che aveva adottato per aiutare la fase terminale dei suoi malati: ciò che però mi ha colpito è stato soprattutto il riferimento ad alcune regole alle quali teneva molto, e che dovevano servire proprio per ricordare ali operatori sanitari che stavano trattando con una persona, e non soltanto con un malato.
Egli aveva stabilito che tutti gli operatori sanitari, prima di entrare nella stanza del paziente, anche se il paziente era sedato, o lo si riteneva incapace di comprendere, dovevano bussare alla porta: il motivo, espresso con semplicità disarmante, è che quando si entra in “casa altrui”, ci si annuncia.
E, per quanto la metafora della casa possa sembrare paradossale, era profonda: la stanza del malato diventa di fatto il luogo della sua esistenza quotidiana e della sua stessa intimità personale.
Una volta entrati, poi, ci si doveva presentare e si doveva dire il motivo della visita.
Nessuna manovra sul paziente, anche venisse detto che cosa si stava facendo e perché lo si stava facendo. Indicazioni “banali”, di “buona educazione”, ispirate al principio generale che li c’era un’altra persona, che doveva essere trattata come tale.
Con queste regole l’operatore sanitario era richiamato a una consapevolezza: non stava soltanto facendo il suo mestiere, stava mettendosi in relazione con un altro, e doveva farlo sempre con rispetto.
Non era un corpo che stava visitando, non era soltanto un malato che stava curando, era una persona umana.
Questa specie di “galateo” serviva, come il galateo, ad indicare i modi convenienti con i quali trattare gli altri.
In questo modo si instaurava una prassi di riconoscimento interpersonale, che in alcuni casi sembrava priva di reciprocità, perché la soggettività dell’altro poteva anche non manifestarsi.
Ma in questo comportamento, con questi gesti, l’altro era incluso in una relazione di rispetto pratico che serviva innanzitutto al medico e all’operatore sanitario: laddove l’altro si manifesta soltanto attraverso la sua corporeità dolente, il dovere del rispetto ha bisogno di essere richiamato continuamente attraverso gesti “convenienti”.
Il riconoscimento della persona, in questo esempio, avveniva su quella base minimale che è necessaria affinché non si instaurino prassi di discriminazione: l’altro è riconosciuto a partire dal suo semplice “essere uno di noi”, dal suo appartenere alla famiglia umana.
Non gli veniva chiesto di “provare” di essere una persona umana, perché non si identificava la persona con l’esercizio dell’intelligenza e della volontà, ma con la sua concreta esistenza corporea. Il “malato” vuole senza dubbio qualcosa di specifico dal medico e dalla medicina: vuole essere guarito, o almeno curato.
Ma nessuna relazione medica può mai essere svuotata del suo spessore umano, perché è sempre, in un modo o nell’altro, una relazione di fiducia.
E la competenza del medico è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per instaurare quella relazione di cura che ha sempre anche una valenza morale.
Quelle regole, che non mi pare siano molto in uso nei nostri ospedali, servivano al medico anche sotto un altro aspetto: gli ricordavano che il suo essere persona era qualcosa di altrettanto importante del suo essere un buon professionista, perché un giorno avrebbe dimesso il camice, ma non avrebbe mai potuto dimettere la propria personalità morale, quella personalità che egli, giorno dopo, costruiva all’interno della sua professione. All’operatore sanitario non era richiesto soltanto di trattare l’altro come una persona, ma di agire anche come una persona.
Trattando gli altri come persone si impara a comportarsi da persone.
Quelle piccole, elementari regole, stabilite in quel reparto, erano certo poca cosa, ma erano un primo segno concreto di che cosa voglia dire umanizzare la medicina nella quotidianità, anche in quella quotidianità difficile dove il confine tra la vita e la morte si sposta continuamente.
Professor Adriano Pessina
Cattedra di BioeticaUniversità Cattolica di Milano