da Leadership Medica n. 261 del 2007
E' necessario fare esperienza per comprendere il significato ed il valore della malattia?
Il Ministero della Salute ha reso noto che il Ministro Livia Turco ha insediato una "Consulta dei medici malati". Lo spunto, pare di capire, è nato dal volume "Dall'altra parte", edito da Rizzoli, che raccoglie esperienze e riflessioni di medici che hanno fatto i conti con la malattia in prima persona. Lo scopo di questa consulta, che raccoglie persone note anche al più vasto pubblico per la loro competenza e umanità, dovrebbe essere quello di elaborare un 'Libro bianco' di proposte per, come recita il comunicato stampa "il rinnovamento della medicina e della sanità, a partire da una diversa attenzione per la formazione degli operatori, l'umanizzazione della assistenza, l'informazione e la comunicazione, il rapporto con i pazienti, l'attenzione per la qualità della vita come parte strutturale del percorso di cura in tutte le sue fasi". Stando alle dichiarazioni del Ministero, la Consulta avrà il compito di progettare materiali didattici per la formazione a distanza degli operatori sanitari sull'umanizzazione delle cure, da avviare attraverso corsi Ecm ad hoc, che il ministero della Salute offrirà gratuitamente a tutti gli operatori sanitari italiani. Questa, in sintesi la notizia. Ora vale la pena di fare qualche riflessione.
C'è subito un aspetto positivo da segnalare, e cioè la preoccupazione di dare spazio, nella formazione del medico, ad una rinnovata attenzione al malato come persona e alla malattia come vissuto personale.
Credo che sia questo il significato da attribuire al concetto di umanizzazione dell'assistenza. Nessun dubbio, inoltre, che i medici convocati possano dare un contributo positivo e utile: ma questo dipende, penso, più per le loro doti personali che per il semplice fatto di essere contemporaneamente medici e malati.
Ma, detto questo, non si può passare sotto silenzio che il comunicato del Ministero rischi di far passare un criterio di scelta decisamente discutibile. Infatti, che un medico sia anche stato, o sia ancora, un paziente, non risulta elemento sufficiente e necessario per poter dire che sia in grado di dare un contributo positivo alla questione dell'umanizzazione dell'assistenza.
Se davvero valesse questo criterio si dovrebbe dire che chi non ha avuto esperienza della malattia non è in grado di comprendere l'esperienza della malattia dei propri pazienti e non sa, quindi, gestire adeguatamente le tecniche dell'assistenza.
E poi, se è così importante l'esperienza della malattia perché privilegiare il binomio medico-paziente e non limitarsi a coinvolgere alcuni pazienti?
Appare ovvio, infatti, che non tutti i medici malati si ammalano proprio della malattia di cui sono specialisti e non è affatto detto che l'essere competenti della propria malattia significa saperla affrontare in maniera adeguata.
L'esperienza in prima persona, infatti, non garantisce nulla circa la comprensione dell'esperienza stessa e non sono mancati i casi in cui proprio i medici si sono rifiutati di riconoscere, per un complesso meccanismo psicologico, la loro malattia.
Inoltre va detto che le esperienze in prima persona, se prese sul serio, sono sempre individuali e veramente irripetibili e perciò non traducibili in criteri generali, in quanto appartengono all'ordine della testimonianza.
Nel momento in cui le esperienze vengono comunicate e fatte oggetto di riflessione si presume che anche chi non ha fatto questa esperienza possa cogliere degli elementi universali e, quindi, si conferma la tesi per cui non è necessario fare un'esperienza per comprenderne il significato ed il valore. L'intento lodevole di considerare la questione della salute nella sua complessità, e non soltanto secondo la prospettiva naturalistica e scientifica, non può trovare piena soddisfazione se si riduce il tutto alla dimensione della testimonianza, anche perché, in linea di principio, ci possono essere testimonianze decisamente discordanti ed è irrisolvibile la questione del che cosa si deve fare sulla base soltanto di ciò che si fa.
Inoltre, il modo con cui un medico vive e percepisce la sua malattia e dà senso alla sua esistenza dentro la malattia non dipende dal suo essere medico, ma da quei convincimenti che ha maturato come persona, che ha assimilato dall'ambiente in cui è cresciuto e dai valori nei quali crede o no.
Del resto è evidente che il criterio di scelta dei componenti di questa Consulta non può essere stato soltanto quello dell'esperienza diretta della malattia (perché questi e non altri medici malati?): non sarebbe meglio, allora, indicare quali sono questi criteri?
Se, infatti, questa Consulta avrà il compito di formare altri medici e operatori sanitari e di dare indicazioni su come umanizzare l'assistenza non potrà di certo farlo soltanto sulla base del vissuto dei singoli, visto che criteri e linee-guida riguarderanno situazioni e persone differenti in contesti differenti e le esperienze hanno bisogno di molte mediazioni culturali per diventare conoscenze e progetti. Sinceramente, o la Consulta di medici malati è una iniziativa simbolica, oppure rischia di avere una valenza discriminatoria e di stigma sulle competenze assistenziali di quei medici che malati non sono, o di quei malati che non sono medici. E del resto nessuno pretende che un ministro della salute diventi competente laureandosi in medicina o ammalandosi.
Le vie della comprensione dell'esperienza umana e della promozione delle forme dell'assistenza sono molto più estese.
Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica
Università Cattolica di Milano