Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 9 del 2003

Gli uomini sono mortali e sanno di esserlo.
Il dolore fisico, la sofferenza, l’angoscia, sono componenti dell’esistenza umana tanto quanto la salute, la gioia, la speranza.

Con il tema dell’eutanasia, intesa come l’atto con il quale, in modo volontario, si toglie la vita di un morente e di un sofferente, emerge, con prepotenza, la voglia “di farla finita” con un aspetto ineliminabile della condizione umana, la sua finitezza.
Un piccolo gruppo di “intellettuali” si fa oggi interprete, attraverso diverse strategie argomentative, di questa illusoria forma di emancipazione dalla condizione umana: se la morte è un non-senso sulla strada dell’uomo libero, autonomo, razionale, che si è costruito la propria identità e la propria fortuna, allora, in attesa di sconfiggerla, non resta che infliggersela. In nome della qualità della vita, della dignità della persona e della sua autonomia, si teorizza la legittimità sia del suicidio assistito sia dell’eutanasia.
Al popolo dei sani, che dovranno costruire la rete teorica e giuridica per approvare e diffondere questa impostazione, ci si appella facendo leva sull’arma della compassione.
Ma questa compassione che viene evocata è in realtà l’esibizione del turbamento che il sano ha di fronte al malato, è l’accentuazione del senso di impotenza e di fragilità che irrompe nell’immaginario collettivo che è stato addestrato a sognare una vita finalmente liberata dal peso della fatica e del dolore. In una società come la nostra, dove la morte è esibita quotidianamente attraverso i mass media e annunciata in pillole attraverso le campagna di salute pubblica e di prevenzione dei tumori, dell’Aids, dell’influenza atipica, la morte reale è diventata un evento scandaloso, un fatto scabroso, un insopportabile richiamo a questo nostro essere fatti di carne e di sangue.
Anestetizzare la morte, renderla “pulita”, asettica, innocente, rapida, indolore: in questo desiderio non c’è soltanto l’amore e la compassione per il morente, c’è, più subdolo e ambiguo, il desiderio di sottrarsi alla solidarietà umana, alla condivisione di una sorte che rende ragione della nozione di “famiglia umana” con la quale, per secoli, abbiamo imparato a tradurre l’impersonale espressione “specie umana”.
C’è un’altra forma di compassione che si appella alla qualità della vita, alla dignità della persona e della sua autonomia, per percorrere la faticosa strada della solidarietà, per partecipare della silenziosa presenza del morente prendendosene cura nell’eloquente condivisione dei pesi e delle ore di fatica e di dolore. Il tempo sottratto alla morte non è un tempo inutile e vuoto: assistere i morenti, facendo il possibile per lenire il dolore e per dare speranza alla vita che si consuma attraverso l’abbraccio di quello scandaloso e inattuale gesto d’amore che è il rispetto della condizione umana, ecco la risposta all’eutanasia.
La qualità della vita si misura sulla qualità dei rapporti umani che si possono coltivare fino all’ultimo, impedendo alla paura, alla sofferenza e al dolore di diventare la parola definitiva rispetto all’affetto, all’amore, alla fraterna condivisione delle ultime ore. Farla finita subito: questo grido è il sintomo di una solitudine diffusa, della progressiva indifferenza che si sparge all’interno di una cultura che celebra un uomo immaginario che potrebbe costruirsi senza fare i conti con la propria finitezza e con la propria originaria dipendenza dagli altri.
La finitezza non è né una condanna né una maledizione: è la struttura propria dell’uomo che continuamente la trascende, comprendendone il senso, la dinamica, la bellezza.

Non ci si può stupire che molti di coloro che vorrebbero normalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito si proclamino ostili alla tradizione giudaico-cristiana: è dentro la fiducia in un Dio che non è nemico dell’uomo che la cultura occidentale ha imparato ad apprezzare fino in fondo la finitezza della condizione umana, quella finitezza che, per la fede nell’Incarnazione, è diventata il luogo dove può manifestarsi e compiersi il valore della condizione umana.
Per secoli, la ragione umana ha trovato in quella fonte religiosa gli elementi per un’autocomprensione dell’uomo capace di valorizzarne le potenzialità e di rispettarne il valore: quella parte della cultura dell’Occidente che oggi celebra la propria emancipazione dalla fede religiosa e dalle sue ragioni in che modo pensa di esprimere la verità della condizione umana, senza trasformarsi in una nuova forma di alienazione, privata e collettiva ad un tempo?
Nel dibattito sull’eutanasia e sulla tentazione di “farla finita subito” c’è in gioco la comprensione dell’intera esistenza umana e dei rapporti che permettono ad ognuno di vivere la propria vita in un orizzonte pacificato con la condizione umana. Anche la morte può essere vissuta nella serenità.

Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica Università Cattolica del S.Cuore Milano