Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 6 del 2003

I concetti di “danno” e di risarcimento del “danno” sono, purtroppo, ben presenti a chi esercita l’arte medica.
I medici italiani si lamentano, spesso, di essere sottoposti, loro malgrado, ad indebite interferenze della magistratura, accusata di intervenire in termini giudiziari in nome più delle aspettative dei pazienti (o dei loro parenti) nei confronti dell’operato medico, che da oggettiva negligenza.

Il capitolo, almeno in Italia, della cosiddetta “pressione giuridica” sull’operato medico è fra i più controversi ed è, ovviamente, interpretato in modo differente se letto dalla prospettiva del paziente o da quella del medico. Il ricorso alla legge per dirimere questioni di natura medica è anche indice di una situazione di disagio che sembra andare al di là del legittimo intervento a fronte di comportamenti che violano la legge e il codice deontologico.
Uno dei fattori, infatti, che determina questa “pressione giuridica” è dato dal fatto che non si è compresa la natura empirica dell’arte medica, come tale esposta all’errore, e si è alimentata una smoderata fiducia nelle possibilità (a volte più astratte che reali) della medicina. Ma, mentre questo argomento è spesso posto a tema, ciò che non compare quasi mai è quello inerente al tema del “perdono”.
Si tratta di un’assenza tematica significativa. L’argomento del perdono, infatti, ha una specifica importanza nelle relazioni interpersonali, specie in quelle che hanno una densità morale elevata. La categoria del perdono non è soltanto una categoria religiosa ed ha una notevole rilevanza sociale. Il perdono è una figura diversa da quella del risarcimento del danno, perché si riferisce ad un danno che non può essere “ripagato” in modo oggettivo, in quanto ciò che si è violata è la dignità personale dell’uomo, o qualcosa che fa riferimento diretto a questa dignità. Il perdono ha una funzione di pacificazione sociale, perché interrompe il ciclo della vendetta, spezzando il rapporto tra azione e reazione, e permette una forma di riconciliazione tra l’offeso e chi arreca offesa.
Le richieste di perdono, nella nostra società, sono spesso associate a funzioni strettamente pragmatiche, cioè sembrano servire ad attenuare le forme di risarcimento del danno. Se però ci limitiamo a questa prospettiva utilitaristica del perdono perdiamo di vista ciò che ne costituisce la specificità morale. Ci sono, infatti, alcune condizioni perché si possa chiedere perdono e perché si senta la necessità di questa richiesta.
La prima condizione è che il soggetto che chiede perdono si senta realmente responsabile del suo atto: il che significa che non si attribuisca la colpa alle circostanze o a fattori che trascendono la nostra scelta. Si può sbagliare oggettivamente senza essere soggettivamente colpevoli dal punto di vista morale: per esempio, si possono commettere degli errori laddove, senza negligenza alcuna, si è agito con informazioni insufficienti. Resta il danno, resta l’imputabilità del danno, ma manca la responsabilità morale soggettiva.
Perciò, la richiesta di perdono esige la piena consapevolezza di una scelta sbagliata che è frutto dell’esercizio della nostra libertà. La richiesta di perdono, quindi, esige una consapevolezza morale non comune. La necessità di questa richiesta, allora, non sorge come scorciatoia per attenuare il peso del risarcimento del danno, ma come volontà di reintegrare la propria moralità respingendo da se stessi la catena delle colpe che gravano sulla nostra storia personale. Il perdono è, in questo caso, una riconciliazione con se stessi che nasce dall’intento di non riconciliarsi con le proprie colpe passate, e di spezzare un’altra catena, che non è quella della vendetta o dei risarcimenti, ma è quella del passato colpevole che grava sulla nostra condotta.
Chiedere perdono a qualcuno non significa, pertanto, cancellare una colpa, ma renderla inoperante nella dinamica della nostra vita: significa porre le condizioni per un rinnovamento personale. Il perdono, perciò, ristabilisce un altro livello della giustizia, che era andato perduto, quello che riguarda il significato morale (e non soltanto giuridico) di un danno inferto alla dignità umana. Come mai non compare la figura del perdono nella riflessione dedicata alla prassi medica?
Da una parte questa assenza sembra essere motivata da una certa estrinsecazione della relazione tra il medico e il paziente, che solitamente si esercita in riferimento alla dimensione della salute e della corporeità: dimensioni che sembrano avere un aspetto “oggettivo”, dove è facile constatare il danno, ma è difficile individuare l’offesa in termini morali. Questo aspetto è vero, e non va sottovalutato, eppure esistono anche condizioni in cui bisognerebbe chiedersi se non esista anche una colpevolezza morale riferita alle modalità con cui vengono trattati i pazienti. Quante volte abbiamo sentito lamentare il modo con cui si sono comunicate prognosi infauste, senza nessuna preoccupazione nei riguardi della persona altrui? O quante volte si è trattato il corpo altrui dimenticando che è un corpo personale e non semplicemente un corpo malato? Il rispetto nei confronti della persona malata, delle sue esigenze di pudore, di comprensione, di conforto, non è spesso violato in nome dell’efficacia, dell’efficienza, della stessa “professionalità”?
Bisognerebbe riflettere sul fatto che esistono situazioni in cui, anche se non si produce alcun danno fisico, o si ottiene persino un buon risultato clinico, soddisfacente, si è agito senza un autentico rispetto per la persona altrui.
Nella prassi quotidiana dell’esercizio della medicina (ma questo può valere anche per altre professioni a forte coinvolgimento interpersonale, come, ad esempio, l’insegnamento) si possono commettere molte ingiustizie “invisibili” o non sanzionabili. La familiarità con atteggiamenti che non sono sufficientemente rispettosi della dignità altrui agevola una sorta di indifferenza nei confronti della personalità del malato (oggi definito anche utente) che è il segno di un progressivo inaridimento della stessa dignità del medico, che inizia a pensare a se stesso come a un puro prestatore d’opera.
Nell’epoca della parcellizzazione del lavoro, delle competenze, degli interventi, della mediazione tecnologica, è lo spessore umano del medico che rischia di incrinarsi. Il capitolo del “perdono” nella prassi medica, pertanto, meriterebbe qualche spazio di riflessione.
Nella figura morale del “perdono”, infatti, si pone a tema la necessità che, senza nulla sottrarre all’importanza della competenza, della specializzazione, della professionalità, l’arte medica venga esercitata da chi sa che, agendo nelle situazioni di confine che sono date dalla sofferenza e dalla malattia altrui, la sua identità morale si gioca nella sua capacità di rispetto della persona umana.
Chi può dire di non aver nulla da farsi perdonare?

Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica Università Cattolica di Milan