da Leadership Medica n. 4 del 2003
Qualche anno fa, precisamente nel 1999, venne tradotto in Italia il libro di Alan Sokal e Jean Bricmont, dal titolo Imposture intellettuali (Garzanti).
Il libro, opera di due scienziati, docenti di fisica, doveva essere, nell’intento degli Autori, la prova dell’incompetenza e dell’approssimazione di alcuni filosofi che si sono occupati di scienza.
Il bersaglio colpiva, in particolare, alcuni pensatori francesi, da Lacan a Deleuze, accusati di usare concetti, termini e formule che, fuori dal loro contesto specifico, risultavano privi di significato.
Come è noto, quel libro, che ha avuto particolare eco, è stato scritto dopo che uno degli Autori aveva messo a segno una vera e propria beffa: era, infatti, riuscito a far pubblicare alla rivista americana Social text un articolo (che si può leggere nell’Appendice dell’edizione italiana di Imposture intellettuali) volutamente costruito con una serie di citazioni insensate sulla matematica e sulla fisica, tratte da varie opere filosofiche. Ma se alcuni filosofi peccano di leggerezza ed ingenuità quando maneggiano concetti scientifici senza possederne il significato, altrettanto si può dire di alcuni scienziati, specie quando si occupano delle questioni di antropologia e cercano di rispondere, con gli strumenti della neurobiologia, alle questioni dell’identità personale dell’uomo. Il fatto che alcuni biologi si occupino di filosofia, non è di per sé né uno scandalo né un problema, né una novità.
Ma occorre che siano consapevoli che il passaggio da un piano all’altro comporta anche la fatica di prendere sul serio la filosofia, la sua storia, il suo specifico “vocabolario”, costruito attraverso disamine spesso lunghe e complesse.
Lascia perplessi, perciò, la facilità con cui, tesi di natura filosofica, spesso mal costruite, in cui si confondono linguaggi, argomenti, problemi, sono date alla stampa come frutto di risultati scientifici empiricamente inoppugnabili, contribuendo così ad avallare, con l’autorità della scienza, affermazioni a dir poco discutibili e spesso “insensate”.
Possiamo prendere, a titolo d’esempio, il grande risalto dato dalla stampa, italiana e non, alle affermazioni del Premio Nobel per la medicina, F. Crick, che avrebbe finalmente stabilito che in realtà ciò che noi siamo soliti chiamare anima non è altro che una reazione biochimica.
Questa “scoperta”, illuminerebbe così la nozione filosofica di coscienza ed aprirebbe nuove frontiere allo studio del comportamento e della personalità umana.In realtà, lo studio di Crick si occupa del correlato neuronale della coscienza visiva, e il passaggio dalla coscienza sensibile all’anima è frutto delle interpretazioni giornalistiche.
I resoconti dei giornali, si sa, sono spesso imprecisi, ma il fatto è che spesso, gli studiosi del cervello (che è un organo) sono portati a usare con disinvoltura nozioni filosofiche come quelle di anima, di coscienza, di mente, di spirito, facendo confusioni che non verrebbero perdonate nemmeno ad uno studente liceale.
Ognuno, si sa, è libero di usare il linguaggio come vuole (non fanno così anche i poeti?), ma è opportuno che, quando si fanno affermazioni che pretendono di confutare tesi filosofiche, ci si preoccupi di sapere che cosa dice la filosofia, o di indicare quale tesi filosofica si sta discutendo.
L’anima, infatti, non coincide né con la coscienza, né con la mente, né con il cervello. Chi, infatti, sostiene la spiritualità dell’anima umana, ritiene che la cosiddetta coscienza sia segno della spiritualità dell’uomo, ma non che l’anima coincida con lo spirito stesso.
Il termine anima, infatti, esprime (e questo vale per tutti i viventi, piante e animali) il principio unificatore delle attività proprie di un vivente: soltanto per l’uomo si afferma che questo principio unificatore dell’organismo non sia soltanto materiale (la nozione di spirito è, infatti, una nozione che sorge per negazione, è il non-materiale).
E si afferma la spiritualità dell’anima umana perché si ritiene che soltanto così si possano spiegare alcune funzioni, proprie dell’uomo, che si manifestano in quel complesso fenomeno che siamo soliti chiamare coscienza.
Per questi motivi si può affermare che l’uomo concreto ha un’anima spirituale dal momento in cui esiste, quando non ha ancora il cervello, e che la coscienza è l’effetto della struttura spirituale dell’uomo: ma se la coscienza è uno degli effetti della struttura spirituale dell’uomo non può esserne anche la causa. Ora, anche chi afferma la spiritualità dell’anima sa che per poter esercitare l’attività coscienziale occorre un cervello, e che il cervello, come ogni organo, incide sull’esercizio delle attività umane, ma non per questo confonde l’anima con il cervello o con la mente (termine che di solito serve per indicare l’attività del pensare).
Che il cervello sia necessario per pensare è vero: così come è vero che il cervello è composto di parti che possono essere studiate dal punto di vista biochimico. Ma è sbagliato identificare il cervello con il pensiero (che è un segno della spiritualità dell’uomo).
Per pensare ci vuole il cervello, come per camminare ci vogliono le gambe, ma non è il cervello che pensa, né le gambe che camminano, ma è l’uomo concreto. Se si vuole negare che l’anima umana sia spirituale, occorre farlo con argomenti filosofici e non certo studiando la materia cerebrale che, per definizione, è appunto, materia.
Chi cerca neuroni, trova neuroni, non certo frammenti di spirito. Soltanto se si ha una concezione puerile dello spirito (come un “qualcosa” di misterioso situato in qualche parte del cervello o del corpo) si può pensare di negare la spiritualità dissezionando un corpo: sarebbe come voler negare l’esistenza di Dio perché, andando nello spazio, non lo si è incontrato.
Le questioni filosofiche, in realtà, sono tanto serie e complesse come quelle affrontate dalle neuroscienze. Le ricerche effettuate dalle neuroscienze sono importanti perché, tra l’altro, ci aiutano a comprendere le relazioni che esistono tra le lesioni cerebrali e i mutamenti della personalità: ma questo non prova che la personalità dell’uomo risieda nel cervello, quanto, piuttosto, che l’uomo concreto è sempre anche il suo corpo. Del resto, anche lesioni corporee come le mutilazioni di una gamba o di un braccio incidono sulla personalità dell’uomo, e nessuno si azzarda a far risiedere l’io in un arto.
Le ricerche svolte nel campo delle neuroscienze sono importanti, serie ed estremamente informative: peccato che a volte siano contaminate da indebite incursioni dilettantesche nel campo della filosofia.
Forse, se i filosofi e gli scienziati tornassero a parlarsi con l’intento sia di comprendersi sia di comprendere meglio ciò che stanno studiando, molte confusioni e molte imposture potrebbero essere evitate.
Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica Università Cattolica di Milano