Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 7 del 2003

Il progresso della medicina contemporanea è strettamente connesso, sul versante del sapere, allo sviluppo di differenti discipline, dalla biologia alla chimica, dall’elettronica alla fisica, e da molteplice tecnologie; il progresso dell’arte medica, invece, è strettamente connesso con le doti umane di coloro che si dedicano alla salute del paziente, traducendo quelle conoscenze in prassi.

Per secoli, l’arte medica si è costituita all’interno di un rapporto fiduciario tra medico e paziente: curare qualcuno significava “prendersi cura” di qualcuno, cioè preoccuparsi per lui, averne a cuore la situazione all’interno di una relazione personale. Oggi è possibile curare qualcuno attraverso prassi impersonali, con farmaci o interventi che riducono lo spazio della relazione medico paziente allo stretto necessario, quello connesso con l’intervento sulla patologia. Sullo sfondo della prassi medica resta, comunque, il riferimento al “bene” del paziente, l’idea generale che la medicina sia pur sempre il frutto di una dedizione all’uomo nella sua condizione di sofferente, ma questo “principio ispiratore” può essere tradotto nella prassi anche senza implicare alcun coinvolgimento personale con il paziente. Lo stesso rapporto di fiducia si è, per così dire, spostato, dal medico come persona singola alla medicina in generale, spesso pensata soltanto come scienza e non anche come arte. Il paziente si rivolge ad una struttura (l’Azienda ospedaliera), si sposta da uno specialista all’altro, si muove all’interno di diversi reparti, impara a curarsi confidando nelle ricette che gli vengono date: si fida della medicina e perciò si fida, fino a prova contraria, dei diversi medici che via via incontra, magari per pochi minuti, all’interno di un processo fondamentalmente impersonale. A volte, però, sorgono dei problemi, che diventano anche questioni legali, quando il paziente ritiene che il medico non sia all’altezza dell’immagine di onnipotenza ed efficacia che egli si è fatto della “medicina”: in alcuni casi, infatti, le aspettative di salute del paziente vengono deluse non dall’imperizia colpevole del medico, ma dal fatto che queste aspettative erano alimentate da un’immagine della medicina che non risponde alla realtà. Può capitare allora, che la fiducia nella medicina si trasformi nel conflitto con il medico concreto. E questi conflitti sono facilitati dalla spersonalizzazione della relazione di cura. Un sistema di medicina sempre più efficace ed efficiente è spesso in grado di curare, in modo rapido, molti pazienti senza richiedere al medico, o al personale sanitario, particolari attenzioni morali, specifici coinvolgimenti emotivi, senza implicare, in una parola, alcuna “preoccupazione” per il paziente: giocando sul significato dei termini, possiamo perciò affermare che si può curare il paziente senza prendersi cura di lui. In molti casi, pertanto, l’arte medica sembra richiedere al medico soltanto una competenza scientifica. Ma questa è una faccia della medicina, è il volto della medicina della cura nel contesto della cultura contemporanea, dove la relazione interpersonale può essere sostituita da un foglio informativo da sottoscrivere, che funge da garanzia giuridica tra due contraenti che stipulano una sorta di contratto per risolvere una questione particolare. Ma ci sono anche altre situazioni, dove la cura richiede qualcosa di più rispetto alla competenza scientifica: ci sono i casi dei malati lungodegenti, degli anziani e dei bambini ammalati, delle persone in coma, dei malati cronici, ci sono cioè tutti quei casi in cui le persone chiedono al medico (e non ad un’astratta “medicina”) di prendersi cura di loro, che chiedono, cioè, che ci si interessi a loro anche se non potranno guarire, anche se non potranno usufruire di terapie capaci di trasformare la loro condizione. Questa prassi del prendersi cura, che per secoli è stata quella specifica della medicina, è oggi “sentita” come inutile e come dispendiosa perché non produce effetti rilevanti sulla qualità della vita del paziente, perché richiede doti e attitudini che travalicano le competenze scientifiche, perché impone altri ritmi al rapporto medico-paziente, perché è il segno visibile di quanto sia illusoria la promessa salutista. La cultura occidentale coltiva il sogno di poter gestire la malattia, il dolore, la sofferenza attraverso tecniche che richiedano il minimo coinvolgimento interpersonale e deleghino le questioni etiche alle scelte “private” e autonome del paziente. Quell’ antico ideale della solidarietà umana, quella “pietas” che allarga i confini per includere nella prossimità anche gli “estranei”, che accoglie nella società anche coloro che la malattia emargina, quell’ideale resta confinato negli astratti principi che vogliono il bene del paziente, ma senza troppi coinvolgimenti con lui. Esiste uno scompenso, una sproporzione, tra i traguardi terapeutici della medicina odierna e la consapevolezza delle implicazioni etiche dell’arte medica. Questa sproporzione può essere misurata dal tempo che ogni medico dedica al “proprio” paziente per parlargli, per conoscerlo, e non solo per dirgli quali siano le sue aspettative di vita secondo le statistiche dell’ultima indagine pubblicata su Nature. Il tempo del “prendersi cura” dell’altro sembra un tempo sprecato. Non è necessario, e sarebbe persino sbagliato, trasformare il medico in una sorte di confidente, in una specie di generico amico o confessore del malato, è sufficiente sottrarlo alla tentazione di diventare soltanto un “tecnico” della salute. Il dialogo interpersonale, quello capace di aprire un percorso fiduciario all’interno dei molti labirinti impersonali della medicina, non è un lusso per chi ha tempo, è una componente necessaria dell’arte medica, arte che ha come “oggetto” un soggetto umano, soggetto che “vive” la malattia secondo sfumature esistenziali che richiedono l’ascolto. I tempi ospedalieri sono diventati frenetici come la nostra vita quotidiana e i dialoghi sono diventati monologhi a due, come capita spesso nelle nostre relazioni occasionali al bar. In medicina, questa situazione “funziona” finché non genera sacche di indifferenza che attendono soltanto il momento opportuno per esplodere in conflitti interiori ed interpersonali. Questa situazione non funziona e crea emarginazione e nuove sofferenze laddove la condizione della malattia richiede i tempi lunghi del prendersi cura, gli ampi spazi interiori della solidarietà e della partecipazione.

Curare e prendersi cura, due facce dell’arte medica, che rischiano di diventare due percorsi alternativi: sta a noi impedirlo.

Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica Università Cattolica del S.Cuore Milano