da Leadership Medica n. 7 del 2003
Nel desiderio di approfondire un dialogo che vada oltre la pratica medica tra tutti coloro che operano nel settore sanità, pubblichiamo alcune riflessioni scritte da chi come medico si interroga sul senso profondo delle sue scelte professionali nei confronti delle persone che la malattia chiama ”pazienti”. (n.d.r.)
Mestiere, arte, sacerdozio: tre aspetti della medicina che interagiscono tra loro. non saprei a quale rinunciare sapendo che ognuno di essi è indispendabile nel rapporto medico-paziente. Né riuscirei a fare una classe di merito in cui un aspetto prevalga sull’altro in termini di valori e di efficacia operativa. Toglierne uno equivarrebbe ad eseguire un’amputazione di una parte essenziale della medicina. Se essa è la risposta ad un bisogno, necessariamente nell’istanza è insita una richiesta sia tecnica che umana. L’esperienza della sofferenza e della malattia apre orizzonti e interrogativi, in chi la vive,che oltrepassano il mero bisogno di eliminare un sintomo: anzi, questo è sempre il segnale di un disagio che, espresso dal corpo, riconduce a radici più profonde e intangibili. Qualcuno ha parlato di un “grido dell’anima”. Se il modello di uomo cui facciamo riferimento non è solamente un corpo che risponde a ferree regole meccanicistiche, si può comprendere come il progresso tecnologico, visto come unica e più elevata espressione dell’evoluzione del pensiero medico-scientifico, rappresenta una risposta parziale al problema. Non è una risposta totalizzante ed esaustiva. Forse il disagio dei nostri pazienti, sballottati da un apparecchio a un altro, da un parere superspecialistico a un altro, sta proprio in questo relativismo. “…Voglio essere trattata come persona e non come caso..” mi disse un giorno una paziente affetta da tumore alla mammella. C’è in questa affermazione una richiesta di aiuto e di comprensione, che nessuna tecnologia, per avanzata che sia, può, da sola, esaudire. In qualsiasi esperienza di sofferenza e di malattia (dal semplice mal di denti al tumore) esiste un recondito interrogativo in chi vive quell’esperienza fastidiosa e dolorosa: perché a me? Perché proprio ora? Per quanto tempo devo soffrire? Perché devo soffrire, cosa mi aggiunge e cosa mi toglie? E se il dolore dovesse accompagnarmi sempre? Nessun corpo “meccanico” si porrebbe simili interrogativi: nascono nel profondo della nostra coscienza, presiedono al dubbio, al non conosciuto, al non certo e richiamano, anche se il più delle volte in maniera fuggevole, al senso della storia e del destino di chi sta soffrendo.
Il paziente, in altre parole, non vive mai un fenomeno: vive un’esperienza.
La nostra medicina occidentale, attraverso le sue apparecchiature, gli esami biochimici, gli interventi specialistici, fotografa un fenomeno. Ma nulla dice del dinamismo di quella esperienza. La tecnologia è uno strumento nelle mani del medico estremamente importante ed efficace certo, essa, tuttavia, limita la nostra conoscenza a una realtà statica (e quindi per certi aspetti, effimera). Curare le malattie, identificarle, catalogarle, ricercarne le cause (esterne all’uomo!) rappresenta un’astrazione, perché essa esiste in quanto esiste un uomo che si ammala, che costruisce nel suo percorso di vita la sua malattia con peculiarità uniche e irripetibili. E’ creazione del suo essere e del suo divenire. Credo che se il sempre più frequente ricorso alle medicine “olistiche”, erroneamente, a mio avviso, definite alternative, al di là delle “mode” indichi un segnale molto preciso. Quello che è in gioco non è l’”alternativa” tra antibiotico e rimedio omeopatico o fitoterapico; è in gioco il metodo di approccio. Il riconoscimento da un lato di un fenomeno, dall’altro di una storia, di un percorso. Due modalità che cambiano radicalmente l’incontro medico-paziente e le soluzioni diagnostiche e terapeutiche. “…guarire gli infermi significa aiutarli a recuparare la loro perduta unità, ad operare l’integrazione tra le dimensioni del desiderio, della volontà e della decisione: medico quindi è colui che non asporta con facilità delle parti, che non sopprime facilmente una funzione a favore di un’altra, ma colui che aiuta l’individuo a recuperare il proprio equilibrio” (N. Del Giudice). Ed è un equilibrio che coinvolge contemporaneamente la sfera fisica, psichica ed emozionale. Si parla, sempre più frequentemente, in ambito scientifico di “mutamento di paradigma”. Per la medicina, per il rapporto medico-paziente questo significa riaffermare principi come identità, totalità, unicità. L’identità ci definisce e ci personifica: la malattia, poco o tanto, è una perdita di identità, biologica e non. E curare, guarire è consentire il recupero di quella identità. La medicina occidentale prosegue, giustamente, il suo percorso verso un progresso tecnologico; fa bene l’uomo a usare a prolungamento delle proprie mani e della propria mente, quanto le sue mani e la sua mente hanno progettato e costruito per meglio aiutarlo. Ma a questa tecnica va abbinata una conoscenza e una “esperienza” profonda dell’anima umana. Perché ogni intervento, ogni atto medico non perda ascolto, disponibilità, accoglienza; perché il medico abbia il coraggio di personalizzare ogni intervento e ogni suo atto, senza timore di perdere, con questo, in obiettività e scientificità.
Cesare Santi
Specialista in angiologia e chirurgia vascolare