Sezione Cultura

da Leadership Medica n. 274 del 2009

Molte furono le bambine egizie chiamate Mit, “Gatta”; anche ad alti ranghi: un caso illustre fu quello del faraone Pami (773-767a.C.) della XXII dinastia, il cui nome significa “Il Gatto Maschio”

C'è crescente attenzione e sentimento sempre più intenso nei confronti degli animali domestici, piccoli amici che ci confortano nei frequenti momenti di solitudine. Ma a ben vedere questa abitudine di addomesticare e spesso di antropomorfizzare animali come cani e gatti (ma non solo) è già riscontrabile nelle civiltà antiche, in periodi arcaici e remoti, dove l'affetto e una promiscuità innaturale già erano manifesti, anche se non su così vasta scala.

Appare dunque curioso ripercorrere la storia di un simile rapporto d'amicizia e focalizzare l'attenzione sul gatto; in particolare nell'Egitto antico, dove, in ottemperanza a una zoolatria senza paragoni, anche questo felino, una volta addomesticato, veniva venerato sotto forma di curiosa divinità.

All'alba della storia e poi giù per arrivare fino alle prime Dinastie in riva al Nilo, gli uomini hanno insegnato ai gatti a dare la caccia a roditori vari: nel territorio paludoso i topi erano numerosi, danneggiavano i raccolti e infestavano le case alla ricerca di cibo nei silos in cui veniva riposto il grano; ma non finiva qui: i gatti erano utili anche contro i serpenti, che spesso sopprimevano grazie alla rapidità di movimenti.

Ecco che così il simpatico felino comparì addomesticato nelle rappresentazioni tombali egizie soprattutto a partire dal Nuovo Regno, verso il 1500 a.C., mentre nelle pitture antecedenti si vedono gatti selvatici simili a linci, impiegati per catturare uccelli nelle paludi da parte del titolare della tomba, dove la scena appare; famoso e probabilmente il primo di una lunga serie è il disegno di un gatto a caccia, visibile nella sepoltura di Khnumhotep III (XII dinastia, 1800 a. C. ca.), a Beni Hasan, nel Medio Egitto: il defunto è immerso in una palude mentre cerca di infilzare dei pesci con uno spiedo, l'animale è appostato sopra un fascio di papiri pronto a scattare sulle prede.

Vi è però un elemento insolito; a ben vedere, i fasci di papiri non potevano sostenere il peso dei gatti o di altri animali cacciatori: quindi il realismo delle scene è relativo, del tutto sacrificato a un presupposto e ad una valenza religiosi; si vuol mostrare che il defunto dominava gli elementi del caos, simboleggiati dagli animali della palude e che in questo era supportato da divinità amiche a forma di animale, come il gatto, sorta di aiutanti magici.

Come detto, presto il rapporto divenne domestico e quasi d'amicizia; a partire dal 1500 a.C., le rappresentazioni tombali mostrano spesso una gatta sotto il sedile della "signora della casa": i due sposi sono rappresentati seduti fianco a fianco, ma la gatta risulta invariabilmente associata alla donna. Questo perché la gatta è un simbolo della femminilità ed esprime l'augurio di una madre feconda e di un matrimonio propizio.

La cura dei titolari delle tombe per il loro gatto, man mano che la società egizia si sviluppava e diventava più raffinata, divenne quasi religiosa; tanto che gli animali, come anche altri, venivano sepolti dopo la morte in necropoli apposite, addirittura venerati con processioni e offerte e sorvegliati da classi sacerdotali. Un caso eclatante si verificò con il principe ereditario Thutmosi , figlio di Amenhotep III (XVIII dinastia), che fece costruire un sarcofago di calcare per la propria gattina defunta e la pianse a lungo: i testi e le immagini scolpiti sul sarcofago sono del tutto analoghi a quelli degli umani; con riti propiziatori la gatta è trasformata in un Osiride, il dio dei morti, a conferma di una supposta e quasi umana rettitudine in vita.

E il nome? Decisamente onomatopeico (il gatto maschio miu-mi, la femmina miut-mit) e tale da stimolare la fantasia di genitori un po' snob al momento della nascita dei figli: molte furono le bambine egizie chiamate Mit, "Gatta" ; anche ad alti ranghi: un caso illustre fu quello del faraone Pami (773-767 a.C.) della XXII dinastia, il cui nome significa "Il Gatto Maschio" ("pa" è l'articolo "il" e "mi" sta per "gatto").

Il decorso del gatto da animale selvaggio a compagno di quotidianità domestica è riscontrabile anche nelle figure, una successiva all'altra, della divinità zoomorfa, che lo simboleggia: come detto, il simpatico felino venne divinizzato; e il suo iter sacro passò da una divinità feroce e selvaggia come Tefnut alla dolce e amabile dea Bastet, venerata in tutti i templi, ma anche presso i focolari domestici in riva al Nilo; e addirittura gratificata con un centro abitato a lei proprio: Bubasti nel Delta, non distante da un braccio del grande fiume.

Con la XXII dinastia, verso il 950 a.C., si espande il culto di Bastet, promosso dai preti di Sekhmet, sotto i sovrani di origine libica: compaiono un'infinità di bronzetti che rappresentano sia una gatta accucciata che una gatta attorniata da vari micini; Bastet assume valore apotropaico (è invocata per allontanare le malattie e il malocchio) e diventa anche un talismano di felice maternità.

Stretta è poi la connessione tra Bastet e Hathor, dea dell'amore, inteso come amore coniugale e procreativo, che venivano celebrati in grandi feste nei santuari di Bubasti, di cui Erodoto , storico greco del V sec. a.C., ci ha lasciato un resoconto dettagliato, tanto ne fu impressionato: partecipavano grandi masse di pellegrini (anche 700.000), che confluivano qui da tutto l'Egitto utilizzando la via del fiume.

Le barche erano affollate di uomini e donne impegnati in canti, nel battere le mani e nel suonare i sistri, antichi strumenti musicali. In vista di ogni villaggio attraversato, le barche si accostavano alla riva e la gente in festa lanciava lazzi e ondeggiava in danze felice, allietata da vino rosso di Cipro: un autentico inno alla gioia coniugale.

Un altro storico greco, Diodoro Siculo (I sec. a.C.), racconta che la venerazione era a tal punto idolatria, che chi uccideva un gatto subiva la pena di morte; e cita un caso a cui assistette di persona: un cittadino romano, un importante centurione, uccise involontariamente un gatto e venne subito linciato dalla folla, senza processo. La contraddizione con l'uccisione rituale dei gatti è solo apparente: il rituale trasformava il gatto ucciso in un essere divino, quindi anche l'animale ne traeva beneficio.

E' a seguito di un tale culto religioso che le mummie di gatti (e di cani) ritrovate nelle rispettive necropoli erano così numerose che già nel XIX secolo furono stivate in un gran numero di navi e spedite in Europa per essere usate come concime nei campi.

Aristide Malnati Dottor Aristide Malnati