da Leadership Medica n. 9 del 2004
Recentemente l’astrofisico britannico Stephen Hawking (nella foto sotto) ha ammesso che la sua teoria scientifica più famosa, quella sui buchi neri del 1976, è sbagliata: lo scienziato di fama mondiale ha affermato infatti che, contrariamente a quanto pensava, i buchi neri non solo non distruggono tutto ciò che fagocitano, ma alla fine potrebbero lasciar sfuggire le preziose informazioni contenute al loro interno.
Stephen Hawking (8/1/1942, Oxford)
Secondo la teoria precedente, i buchi neri distruggono tutto ciò che vi cade dentro, dai resti di stelle gigantesche alle nuvole di gas e polvere interstellare. La forza gravitazionale di queste regioni dello spazio è così forte che riesce a trattenere qualsiasi cosa, perfino la luce. Nonostante emergesse un’incongruenza con la teoria quantistica (la fisica che studia il comportamento della materia a livello sub atomico), le tesi elaborate da Hawking negli anni Settanta furono accettate dalla maggior parte della comunità scientifica. Ma ora lo scienziato - confinato su una sedia a rotelle a causa di una malattia neurologica - ritiene oggi che una parte delle informazioni sulla materia risucchiata dai buchi neri, nel tempo, può filtrare all’esterno.
La nuova teoria, o forse a questo punto sarebbe meglio chiamarla “nuova ipotesi”, dovrebbe risolvere uno dei più grandi paradossi sugli oggetti più misteriosi dell’universo.
Queste dichiarazioni, alcuni mesi fa, sono rimbalzate su tutti i mass-media, ma pochi sono andati oltre. Quali sono, infatti, le nuove idee che l’astrofisico ha maturato in questi anni, trasformando i buchi neri da mostri dell’Universo ad oggetti a cui chiedere molte notizie sull’evoluzione del nostro cosmo? Cerchiamo di dare una risposta a questa domanda partendo da quanto Hawking ha rilasciato sulle riviste specializzate solo molto recentemente.
Innanzi tutto è buona cosa ricordare cosa propose Hawking nel passato per capire quanto sostiene oggi. Nel 1976 l’astrofisico britannico diede il suo contributo più importante alla cosmologia dimostrando che una volta formato, un buco nero, inizia a perdere massa attraverso la radiazione di energia (da allora conosciuta come ‘radiazione di Hawking’) fino ad evaporare del tutto. Il professore sostenne inoltre, che questa radiazione non conteneva alcuna informazione sulla materia risucchiata dai buchi neri. Hawking stesso ebbe a dire: “Si pensava che la materia caduta dentro un buco nero fosse persa per sempre e che le uniche informazioni recuperabili riguardassero solo la massa e la carica elettrica del buco nero stesso”. Questa ipotesi contrastava con le leggi della fisica quantistica, secondo cui le prove dell’esistenza della materia non possono essere mai cancellate completamente. Per 30 anni, per spiegare questo paradosso, il professore ha sostenuto che i forti campi gravitazionali dei buchi neri sconvolgono perfino le leggi della fisica quantistica, una spiegazione tuttavia, mai accettata fino in fondo da tutti i suoi colleghi.
Un astrofisico, in particolare, si è sempre opposto all’ipotesi Hawking, si tratta di John Preskill. Per sostenere la propria teoria, tuttavia, Hawking arrivò perfino ad ipotizzare che i buchi neri potevano aprire altrettante porte verso altri universi, che avrebbero in qualche modo “risucchiato” il contenuto del buco nero stesso. Questa ipotesi portò i buchi neri alla ribalta dei più fantastici racconti di fantascienza.
Ma ora l’astrofisico chiude, metaforicamente parlando, quelle porte e dice: “Un buco nero non trattiene per sempre ciò che ha inghiottito. Alla fine si apre e butta fuori, nel nostro Universo, l’informazione su ciò che vi è caduto dentro” e lo dimostra con una serie infinita di calcoli ed equazioni. Ma come e dove escono queste informazioni? Lo spiega ancora Hawking: “Un buco nero ha un proprio confine superiore che è chiamato “orizzonte degli eventi”. Prima pensavo che tutto ciò che superava tale orizzonte non poteva più tornare indietro. Ma ora ho scoperto che questo orizzonte non è immutabile, ma presenta delle fluttuazioni che permettono all’informazione che è già presente nel buco nero di tornare al di qua. Anzi sono dell’idea che non esiste neppure un vero orizzonte degli eventi, ma ne esiste solo uno apparente”. Una delusione per gli amanti della fantascienza, ma una certezza per i fisici che ora possono pensare di nuovo ad un solo Universo, il nostro Universo.
Ma ad ogni ipotesi-teoria devono esserci prove a sostegno e allora è giusto chiedersi: “Davvero la materia cade all’interno dei buchi neri? È mai stata vista?” La risposta è affermativa ed è arrivata da un gruppo di astrofisici italiani. I ricercatori della sezione di Bologna dell’Istituto di Astrofisica Spaziale hanno ottenuto questo risultato senza precedenti analizzando gli archivi di dati del telescopio spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea XMM-Newton, per la rivelazione di raggi X. I ricercatori sono riusciti a rilevare per la prima volta in modo diretto, e non tramite modelli interpretativi, materia stellare in caduta vorticosa verso un buco nero in una galassia nota con la sigla MCG-6-30-15 e distante alla Terra circa 100 milioni di anni luce. I dati hanno mostrato così variazioni nel tempo del flusso di raggi X provenienti dalle zone più interne del disco, dove si trova il buco nero. Studiando queste variazioni, il gruppo di quattro giovani ricercatori bolognesi (Massimo Cappi, Mauro Dadina, Giuseppe Malaguti e Gabriele Ponti) ha scoperto che i raggi X osservati sono stati emessi dalla materia cosmica mentre questa cadeva sul buco nero, poco prima di essere inghiottita. Mentre la materia precipita infatti, viene disgregata dalla fortissima gravità del buco nero e si dispone su un disco rotante, chiamato disco di accrescimento. Quindi precipita nel buco nero in orbite a spirale sempre più strette, emettendo quantità impressionanti di energia (anche nella banda dei raggi X) che, sotto l’azione di un campo gravitazionale, possono subire deformazioni. Queste ultime rappresentano quindi la “firma” dell’accrescimento e l’unica vera testimonianza dell’esistenza del buco nero.
Ma c’è un’altra recente scoperta condotta da un italiano sui buchi neri, la quale getta nuova luce sulla loro nascita. Secondo Mario Vigotti dell’Istituto di radioastronomia del Cnr di Bologna infatti, i “buchi neri giganti” del nostro universo si sono formati prima di quanto si pensava ed erano già numerosi dopo poco tempo dal Big Bang: ben dieci volte più rispetto a vecchie ipotesi. Spiega Vigotti: “I buchi neri di dimensioni gigantesche si trovano soprattutto nei nuclei di gran parte delle galassie dell’Universo, compresa la nostra Via Lattea. Ma per cercare i più massicci si devono studiare le loro manifestazioni più eclatanti, chiamate “quasar”. Si tratta di oggetti che emettono segnali radio potentissimi, che se osservati con telescopi assomigliano a semplici stelle molto luminose”. Dalle ricerche condotte da Vigotti sembra che le quasar si sono formate in massa due miliardi di anni dopo il Big Bang, quindi più di dieci miliardi di anni fa (l’Universo, infatti, ha circa 13-14 miliardi di anni).
La domanda a cui ora i modelli cosmologici devono dare una risposta è come hanno fatto i buchi neri supermassicci a formarsi così presto e a essere già così tanti dopo poco tempo dal Big Bang.
Luigi Bignami