da Leadership Medica n. 1 del 2005
Gli tsunami evolvono attraverso tre momenti diversi: si formano quando una forza perturba la colonna d’acqua; si propagano dalla sorgente dello tsunami dove le acque sono profonde ad aree costiere dove lo sono di meno e, infine, inondano la terraferma.
L’avvertimento era giunto il 23 dicembre. Un terremoto violentissimo si era scatenato a nord delle Isole Macquarie (in prossimità dell’Australia). L’energia sviluppata era pari all’8,5° della Scala Richter, uno dei più forti che si ricordi in quell’angolo del Pianeta. Ma poiché i geologi erano concordi che un forte sisma non ne causa altri (se non scosse d’assestamento), nessuno aveva ipotizzato che di lì a poco lungo la stessa frattura (anche se a distanza di oltre 2000 km) che divide due placche in cui è suddivisa la crosta terrestre si sarebbe potuto sviluppare il più violento sisma della storia degli ultimi 40 anni. Ma così è avvenuto il 26 dicembre, quando in Italia erano l’1 e 58. Per avere un’idea della violenza del sisma è necessario riflettere su alcuni dati. L’energia sviluppata equivale all’esplosione di 23 mila bombe atomiche simili a quella scoppiata su Hiroshima, la Terra si è spostata di 3 cm rispetto all’asse terrestre, una gran parte della barriera corallina del mare delle Andamane è stata danneggiata (anche se sembra meno di quanto ipotizzato in un primo momento) e la durata del giorno si è ridotta di 3 milionesimi di secondo. Non c’è comunque da preoccuparsi per tutto ciò, perché sono fenomeni che non influenzano più di tanto il clima e il pianeta stesso.
Ma quel terremoto, oltre ad essere stato così violento, aveva la caratteristica di essere avvenuto in mare. Il fondo in alcuni punti si era alzato di 5 metri in altri si era abbassato di 2,5 m e questo ha causato lo tsunami, una parola giapponese universalmente utilizzata anche dai ricercatori che significa “onda del porto”. L’onda infatti, può essere invisibile in mare aperto, in quanto può non essere più alta di mezzo metro, ma raggiungere i 30 metri quando si abbatte sulle coste. La domanda che tutti si sono fatti è: si poteva evitare il dramma che ne è conseguito? La risposta è unanime: si. Basta un esempio. Nel villaggio di pescatori di Nallavadu (Tamil Nadu), nell’est dell’India, anni fa venne installato un piccolo centro per telecomunicazioni, collegato via Internet al Swaminathan Research Centre che si trova a Chennai. Lo scopo principale del centro era quello di informare i pescatori sulle possibili tempeste che spesso si formano sul Golfo del Bengala. Ma il 26 dicembre quel centro ha permesso di salvare migliaia di persone. Il figlio di uno dei pescatori si trovava a Singapore e per caso sentì alla televisione del terremoto che aveva interessato l’Indonesia. Colpito dalla notizia che gigantesche onde si sarebbero potute abbattere anche in India per lo tsunami che si sarebbe potuto formare, telefonò a sua sorella a Nallavadu, l’avvisò di quanto udito e la mandò subito al centro meteorologico. Utilizzando il sistema di allerta utilizzato per avvisare la popolazione dell’arrivo di uragani, 500 famiglie vennero avvisate di portarsi immediatamente verso l’interno del Paese. Arrivò lo tsunami: furono distrutte 150 case e 200 pescherecci affondarono, ma nessuno dei 3.500 abitanti del villaggio perse la vita. Dunque non sono necessarie tecnologie d’avanguardia o meglio queste sono indispensabili, ma possono essere messe a disposizione da Paesi avanzati tecnologicamente, come in effetti hanno fatto per mettere in uno stato di controllo totale e continuo l’Oceano Pacifico. Per i Paesi più poveri è necessaria un’educazione sul fenomeno, conoscere il mare come si impara a non attraversare una strada quando arriva un’automobile.
Indipendentemente dalla loro origine, gli tsunami evolvono attraverso tre momenti diversi: si formano quando una forza perturba la colonna d’acqua; si propagano dalla sorgente dello tsunami dove le acque sono profonde ad aree costiere dove lo sono di meno e, infine, inondano la terraferma. La generazione è il processo attraverso cui un disturbo del fondo del mare, come può causarlo un terremoto, altera la superficie marina in modo improvviso cosi da originare lo tsunami. Chi elabora un modello di un possibile tsunami parte dal presupposto che il movimento della superficie marina sia omogeneo, ma nella realtà non è così. La morfologia dei fondali oceanici, infatti, si riflette in modo importante sulla superficie del mare e di conseguenza sulla formazione delle onde. A causa di questa discrepanza tra la realtà e le simulazioni spesso si ha una visione errata sulla direzione, sull’intensità e sull’energia che le onde trasportano, con sovrastime o sottostime anche di un fattore dieci.
Ciò può far sì che si allerti inutilmente la popolazione per l’arrivo di uno tsunami che invece non si produce oppure che, al contrario, non si lanci l’allarme quando in realtà è necessario.
La propagazione è il momento meno complesso da studiare e di cui creare un modello: Gli tsunami infatti, sono treni di onde che si propagano come tutte le altre onde e dunque è semplice prevederne il cammino.
Quando lo tsunami arriva in prossimità di una costa si ha l’inondazione della terraferma che può avvenire come un frangente, un muraglione d’acqua o una improvvisa marea, tre situazioni che sono tutte e tre comparse con lo tsunami asiatico. Questa fase è certamente la più difficile da simulare attraverso un modello al computer per la complessità d’interazione tra il mare e la costa. All’avvicinarsi della terraferma, infatti, i fronti dell’onda dello tsunami tendono ad allinearsi parallelamente alla linea di riva: in tal modo avvolgono il promontorio o la costa prima di investirli con un’energia altamente concentrata. Ogni singola onda che arriva rallenta, frenata dalla profondità decrescente dell’acqua. In tal modo la distanza tra le onde successive diminuisce e così si accavallano tra di loro. A ciò si aggiunge il fenomeno della rifrazione, per cui le onde vengono deviate dalle asperità del fondo, dai promontori e dalle insenature della linea di costa. In tal modo in alcune aree sì ha una notevole concentrazione di energia in volumi d’acqua minore. Di conseguenza si formano onde più alte e correnti più veloci. Questo fa si che sia possibile che a distanza di poche centinaia di metri o chilometri le onde da tsunami abbiano una forza distruttiva molto diversa.
In ogni caso uno tsunami non è mai composto da una singola onda, ma da una serie di onde e la prima non è necessariamente la più violenta.
L’altezza delle onde può raggiungere decine di metri, anche se bastano due o tre metri per causare gravi danni. Le testimonianze raccontano che lo tsunami dell’Oceano Indiano ha prodotto onde alte sino a 9 m e la penetrazione dell’acqua verso la terraferma ha raggiunto anche i 7 chilometri. E fino a tale distanza è riuscito a trasportare anche imbarcazioni di grosse dimensioni.
Nella maggior parte dei terremoti che si verificano in mare dove si scontrano 2 zolle si ha un sollevamento del fondo oceanico verso il mare aperto e un abbassamento della terra emersa lungo la costa. Questo tipo di dislocazione fa si che verso il mare le onde si propaghino procedute dalla cresta, mentre verso terra sono precedute dal cavo. Per questo motivo prima dell’arrivo dello tsunami sulle coste di Sumatra e della Tailandia si è visto il mare ritirarsi. L’onda, infatti, si è presentata con la parte più bassa vicino alla terraferma, un fenomeno che non è stato interpretato correttamente dalla gente che, non sapendo cosa stesse succedendo, in alcuni casi ne ha approfittato per raccogliere conchiglie, ignorando che si stava avvicinando la cresta dell’onda che poi li avrebbe travolti.
Che gli oceani siano tutti a rischio tsunami è oggi noto e ben chiaro, ma il Mediterraneo e di conseguenza l’Italia ne è immune? No. Uno tsunami infatti, potrebbe colpire Calabria, Campania e Sicilia. L’ allarme arriva dal “Progetto Tirreno” del Cnr, una serie di ricerche che hanno studiato il più grande vulcano sottomarino d’Europa, il Marsili. Si innalza per 3.000 metri dal fondo del Tirreno meridionale, a metà strada tra Salerno e Cefalù, arrivando fino a -500 metri dalla superficie. Il Marsili è lungo 65 chilometri e largo 40. Spiega Michael Marani, responsabile del progetto: “Sui fianchi del Marsili vi sono numerosi apparati vulcanici satelliti, molti dei quali hanno dimensioni comparabili con il cratere dell’ isola di Vulcano.
Su alcuni di essi sono state identificate le tracce di enormi collassi di materiale, che, se dovessero muoversi di nuovo potrebbero provocare maremoti estremamente pericolosi per le regioni costiere, in particolare le Eolie, Calabria e Campania”. Vi è poi un altro vulcano che potrebbe causare tsunami di non poco conto se dovesse tornare ad eruttare. Lo spiega Domenico Macaluso della Soprintendenza ai beni culturali di Agrigento, subacqueo e ricercatore indipendente: “Il “Banco senza nome”, così è stato chiamato questo vulcano è ancora sconosciuto dalla scienza perché non è mai stato studiato seriamente. Eppure lo scorso 5 marzo ha prodotto un sisma del 3,2° Richter che ha prodotto un piccolissimo maremoto che ha fatto spiaggiare sulle coste della Sicilia tonnellate di pomice. Il vulcano parte da 500 m di profondità per arrivare a 47 m dalla superficie”. Proprio perchè poco noto, sottolinea Macaluso, il vulcano deve essere studiato più di altri perché se dovesse attivarsi si potrebbero avere maremoti di intensità oggi imprevedibile.
Luigi Bignami