da Leadership Medica n. 9 del 2002
Il colosso continua a crescere, ma forse ha i piedi di argilla.
Nello scorso mese di settembre la Cina ha superato per la prima volta l’Italia come prodotto interno lordo, scalzandoci dal sesto posto nella classifica mondiale che occupavamo da molti anni. Se si considera che la Repubblica Popolare ha un miliardo e trecento milioni di abitanti contro i nostri cinquantasei, non è poi un’impresa così sensazionale: il reddito pro capite resta pur sempre un ventesimo del nostro.
Il fatto rilevante è che, da quando ha ripudiato di fatto il comunismo, la Cina è cresciuta in media del 9,7% ogni anno, e anche nel 2002, che a Pechino giudicano un anno mediocre, il suo tasso di sviluppo sarà sette volte superiore a quello dell’Unione Europea. Se continuerà così, entro il 2010 essa si lascerà indietro anche Gran Bretagna, Francia e Germania e nel 2020 salterà il Giappone, per lanciarsi all’inseguimento degli Stati Uniti. Sempre che, nel corso del grande processo di modernizzazione lanciato da Deng Xiaoping e proseguito dai suoi successori, non accada qualcosa che faccia saltare tutto per aria.
Sono tornato recentemente in Cina dopo un’assenza di oltre tredici anni e ho stentato a riconoscerla: il centro di Shanghai somiglia ormai a una metropoli americana e Pechino sta cambiando faccia in preparazione delle Olimpiadi del 2008. Ma gli stessi cinesi mi hanno messo subito in guardia: quella che vedevo era la Cina n.1, composta dalla capitale e dalla fascia costiera, che riceve il grosso degli investimenti stranieri, ha intensi rapporti con l’estero e ha adottato ormai molti costumi occidentali.
Ma dietro questa facciata luccicante ci sono la Cina n. 2, formata dalle provincie agricole centrali e abitata da 600 milioni di persone per cui non c’è più abbastanza terra da coltivare, la Cina n. 3, la vecchia Manciuria costellata di obsolete industrie pesanti che producono solo perdite, e la Cina n. 4, il remoto e montuoso occidente dove spesso la vita si è fermata a cent’anni fa.
Ogni giorno che passa, il divario tra la Cina n. 1 e le altre tre aumenta, nonostante gli sforzi del governo perché l’incipiente (e talvolta già sfacciato) benessere della regione più sviluppata si diffonda anche verso l’interno; e ogni giorno che passa aumenta il pericolo che il Paese, la cui unità è sempre stata precaria e in cui le autorità locali stanno acquistando sempre maggiore autonomia, si disintegri come è accaduto all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia. Se ciò non è finora avvenuto è solo perché la Cina è governata con pugno di ferro da una nomenklatura comunista convertita all’economia di mercato ma non alla cultura della libertà, che soffoca ogni dissenso, imbavaglia la stampa e fa eseguire ogni anno 3000 condanne a morte.
Alla luce di quanto si legge sui giornali, questi allarmi possono apparire esagerati; dai media apprendiamo che la Cina è stata recentemente ammessa, con soddisfazione di tutti, all’Organizzazione Mondiale del Commercio; che dopo alcuni scambi burrascosi su Taiwan e su un incidente nei cieli di Hainan ha stabilito, grazie anche alla comune lotta contro il terrorismo islamico, un buon rapporto con l’America di Bush; che la sua bilancia dei pagamenti è sempre positiva, con duecento miliardi di dollari di riserve valutarie.
Tutti eventi positivi, tendenti a rassicurare gli imprenditori stranieri che hanno già investito 300 miliardi di Euro e che continuano ad essere attirati dalla combinazione – ormai difficile da reperire in altre parti del mondo, salari bassi – manodopera laboriosa – assenza di vincoli sindacali. Ma non è tutto oro quello che luccica.
Dietro la marcia trionfale del PIL, si affacciano problemi politici, economici e sociali da far tremare le vene e i polsi, per cui neppure i nuovi governanti sembrano avere il rimedio. Il principale riguarda la forma di governo, ed è sul tavolo dal giorno ormai lontano in cui Deng diede il via alle famose “quattro modernizzazioni”.
Fino a quando resisterà, in un Paese percorso da mille fermenti e ormai acquisito nelle sue parti più dinamiche all’economia di mercato, il sistema del partito unico che tutto propone e tutto dispone?
La recente storia dell’Asia orientale insegna che, quando una dittatura finisce di traghettare un Paese dall’economia agricola all’economia industriale, diventa vulnerabile al virus della democrazia: è accaduto in Corea del Sud, a Taiwan, a Singapore. Il Partito comunista cinese subì un primo attacco alla sua egemonia ad opera degli studenti di Piazza Tienanmen tredici anni fa e lo respinse con relativa facilità, perché i tempi per una rivoluzione liberaldemocratica non erano maturi.
Probabilmente non lo sono neanche adesso, ma l’insofferenza per l’attuale struttura di potere sta crescendo giorno dopo giorno non solo nella Cina n.1, dove è considerata anacronistica ed inefficiente, ma anche in quella n.2, oberata dalle tasse e dalla corruzione delle autorità locali, in quella n.3, dove la progressiva chiusura dei grandi agglomerati industriali sta creando problemi sociali spaventosi, e in quella n.4, dove le minoranze etniche cominciano ad alzare la testa.
Pur non avendo mai conosciuto la democrazia, negli ultimi dieci anni i cinesi sono diventati molto più insofferenti degli abusi e dei soprusi del potere, e le proteste – anche violente - sono ormai all’ordine del giorno.
La storia della grandiosa diga sullo Yang Tsekiang a valle di Yaowan, che quando sarà completata costringerà ben 1,2 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, è per esempio costellata da una serie di jacqueries locali che hanno molto allarmato Pechino. Spesso queste ribellioni, mai riferite dai media di Stato, vengono a conoscenza degli osservatori occidentali con settimane di ritardo e riesce pertanto difficile valutarne la portata. Nella maggior parte dei casi, esse sono dirette non tanto contro il governo centrale, da sempre considerato nella provincia cinese come un’entità remota, quanto contro piccoli e medi satrapi locali del partito, che impongono gabelle, pretendono tangenti, non forniscono servizi e non si vergognano poi di ostentare sotto gli occhi delle loro vittime un benessere che può derivare solo dalle ruberie.
La situazione più esplosiva è oggi nella Cina n.2, i cui circa seicento milioni di abitanti sono minacciati dalla più grande crisi occupazionale della storia dell’umanità. Ogni anno l’agricoltura cinese, fino a non molto tempo fa spina dorsale dell’economia, è costretta ad espellere dai 4 ai 6 milioni di braccianti, che tendono a riversarsi nelle città e nelle più prospere regioni costiere alla ricerca di un qualsiasi lavoro.
Questa massa di migranti continua a gonfiarsi, e diventerà ingovernabile quando l’apertura delle frontiere imposta dalle regole dell’OMC metterà fuori mercato una serie di prodotti della terra. La Banca Mondiale ritiene che, per fronteggiare la crisi delle campagne, Pechino dovrà creare ogni anno almeno nove milioni di nuovi posti di lavoro nell’industria e nei servizi, contro i circa sei milioni annui del ventennio del grande boom.
Se ciò non fosse possibile le città cinesi, già di per sé caotiche, conoscerebbero una incontrollabile deriva terzomondista, con la nascita tutt’intorno di favelas o baraccopoli come a Rio, a Johannesburg, a Karachi o a Giakarta.
Considerato che già oggi mancano di energia, di acqua e di servizi in quantità sufficiente, poche riuscirebbero a reggere il colpo. Il fatto è che il trapasso dall’economia di comando all’economia di mercato continua a trascinarsi negli anni, senza che il potere riesca a scogliere i nodi più aggrovigliati.
La presenza pubblica nell’industria e soprattutto nella finanza è ancora fortissima, dando luogo a intrecci e conflitti d’interesse di ogni genere. Gli stretti legami del sistema bancario con il potere politico hanno per esempio fatto sì che i crediti inesigibili dei maggiori istituti ammontino al 30, 40 e perfino 50 per cento del totale, cioè che sul metro occidentale essi dovrebbero considerarsi falliti. Agli occhi degli osservatori esterni, tutto il sistema economico cinese appare talvolta come un castello di carte, che potrebbe crollare disastrosamente se qualcosa andasse male.
A renderlo ancora più fragile è la presenza di una criminalità organizzata e ramificata, che spesso arriva a impadronirsi del governo di intere città, architetta schemi finanziari truffaldini da fare invidia a Sindona e arriva a corrompere milioni di funzionari grandi e piccoli. Quando riescono a scoprirli, le autorità non guardano certo per il sottile, tant’è vero che buona parte delle condanne capitali sono comminate per cosiddetti crimini economici.
Ma per uno che incappa nelle maglie di una giustizia che non ha nulla di certo, cento altri la fanno franca.
L’ultima trovata della criminalità è di gestire la produzione di medicine “alternative” a quelle fornite dallo Stato, che talvolta serviranno anche ad ovviare alle carenze della sanità pubblica ma che solo l’anno scorso – secondo cifre peraltro non controllabili – avrebbero ucciso 192.000 persone.
Non si può dire che Pechino non sia conscia dei pericoli e non stia cercando di scongiurarli. Già da alcuni anni, per esempio, è partito un progetto per la costruzione, nelle provincie interne più minacciate dalla crisi della campagna, di nuovi centri urbani in cui insediare i contadini espulsi dal mercato, trasferire dalla costa le produzioni più “mature” e creare nuovi poli industriali. In alcuni casi, specie dove esisteva una tradizione industriale locale di qualsiasi genere, lo schema ha avuto successo, in altri ha dato vita solo a costose cattedrali nel deserto dove gli investitori stranieri rifiutano di insediarsi per ragioni geografiche e logistiche e gli stessi “migranti” non hanno alcuno stimolo a fermarsi.
Di recente, dopo anni di politica dello struzzo, le autorità si sono decise ad affrontare anche l’epidemia di AIDS, che in maniera sorprendente per un Paese autoritario e moralista come la Cina, si sta diffondendo come il fuoco nella prateria: sei milioni di individui infetti oggi, probabilmente 20 milioni nel 2010.
Uno studio prevede addirittura 12 milioni di morti fra dieci anni.
La malattia del secolo è arrivata in Cina soprattutto attraverso il confine sudoccidentale con la Birmania, grande produttrice di droga, investendo prima le minoranze etniche delle provincie frontaliere e poi diffondendosi nel resto del Paese.
Di fronte alla possibilità che la Cina si riveli un gigante dai piedi d’argilla e, subissata da tutti questi problemi, sprofondi nel caos (tarpando le ali all’unica grande economia tuttora in buona salute), i governi occidentali sembrano più interessati a lavorare per la stabilità del regime che a incoraggiare il processo di democratizzazione.
La possibilità che la Cina prenda, un giorno, il posto di “grande nemico” un tempo occupato dall’URSS viene ancora evocata a livello di convegni, ma non è per il momento un fattore importante nelle grandi scelte politiche.
Gli americani hanno pressoché cessato di interessarsi della sorte dei dissidenti e, per ottenere la collaborazione cinese nella lotta contro Al Qaeda, hanno perfino accettato di inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche un movimento islamico del Sinkiang, fino a quel momento considerato un combattente per la libertà. Su Taiwan hanno trovato una forma di tacito compromesso, per cui Pechino ha cessato di minacciare l’isola di un attacco militare e Washington fa il possibile per scoraggiare le velleità indipendentiste di Taipeh.
Se c’è ancora un terreno di scontro, riguarda le forniture cinesi di tecnologia militare, e in particolare missilistica, a quelli che gli americani hanno classificato come “stati canaglia”.
Almeno a livello di governi, gli europei non sono da meno in questo esercizio di Realpolitik. In concorrenza tra loro per assicurarsi una fetta dell’immenso mercato cinese, trattano il governo di Pechino con i guanti e si guardano bene dall’irritarlo con eccessivi richiami al rispetto dei diritti umani o udienze spettacolari per il Dalai Lama.
La sinistra, che attacca continuamente l’America per la pena di morte, tace pudicamente sul fatto che la Cina da sola è responsabile per l’80 per cento delle sentenze capitali eseguite nel mondo. E’ come se ai successori di Mao fosse concessa, per la loro storia, una specie di licenza di uccidere.
Pechino, dal canto suo, sfrutta questa situazione al meglio: quando le fa comodo, tira la corda (vedi la vicenda della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sull’Iraq), ma si guarda bene dallo spezzarla, perché è conscia che un deterioramento del suo rapporto con l’Occidente in generale, e con l’America in particolare, sarebbe per lei catastrofico sul piano economico. Tuttavia, non rinuncia a nessuna delle sue opzioni e a nessuna delle sue rivendicazioni, provvedendo intanto ad aggiornare il suo potenziale militare. Ha scritto il politologo americano Paul Kennedy che, nonostante tutti i nostri sforzi non abbiamo ancora capito nulla della Cina, e di conseguenza non sappiamo bene né quale tipo di Cina vogliamo, né abbiamo grandi possibilità di influire sul corso degli eventi.
Perciò assistiamo, con un misto di fascino, di inquietudine e di rassegnazione a un processo di trasformazione intricato quanto tumultuoso, il cui esito rimane avvolto nella nebbia.
Dottor Livio Caputo