Sezione Cultura

da Leadership Medica n. 9 del 2002

Tra classicismo e disagio contemporaneo
Uno degli autori americani del primo Novecento, che divenne famoso e apprezzato in tutto il mondo, fu Eugene O’Neill.

Egli riuscì a caratterizzare la propria produzione letteraria con innovazioni drammaturgiche basate sulla tensione e l’inquietudine dei sentimenti umani. Si trattava di tutta un’altra cosa rispetto a un teatro americano sino ad allora mosso più dal caso e considerato, a ragione, di minor spessore psicologico nei confronti di quello europeo. Nato a New York nel 1888, figlio di un noto attore di origine irlandese, O’ Neill visse l’esperienza itinerante della vita di teatro: nonostante questo nomadismo esistenziale, riuscì a seguire studi regolari in scuole ad impronta fortemente cattolica. La sua natura libera ed attratta dall’avventura lo portò nel 1909, poco più che ventenne, a partecipare a una spedizione esplorativa in Honduras, cui seguì l’esperienza di vita di mare, in giro per il mondo, in qualità di marinaio, compiendo viaggi in Sudafrica, Inghilterra e in tutti gli Stati Uniti. Come il proprio padre fu attore di teatro e in seguito lavorò come cronista sulle pagine di un giornale del Connecticut. Colpito nel 1913 da una grave malattia, la tubercolosi, per di più aggravata da problemi di alcolismo, dovette ricoverarsi in sanatorio, dato che la situazione della sua salute si faceva sempre più seria.

Questi sono gli anni che costrinsero Eugene praticamente a un’infermità da recluso rispetto al viaggiatore di prima. Per superare tale periodo di inattività fisica lo scrittore si diede alla lettura e alla riflessione sul senso dell’esistere, che precedette di poco l’inizio della sua carriera drammaturgica. Migliorate, infatti, le condizioni di salute, egli si stabilì nel 1916 a Provincetown dove riuscì a portare alcuni testi, i cosiddetti “drammi marini”, nei quali la vita d’avventura di porto in porto è il tema base, come risulta ne La luna dei Caraibi e In viaggio per Cardiff (entrambi del 1916) e Il lungo viaggio di ritorno (1917). Furono subito dei successi di critica e di pubblico, tanto che nel 1920 con il dramma in tre atti Al di là dell’orizzonte Eugene O’Neill vinse il Premio Pulitzer, che lo elesse tra i grandi della letteratura statunitense. Da quel momento la sua fama si estese anche in Europa e nel 1936 gli venne attribuito il Premio Nobel. Morì a Boston nel 1953. Tra i suoi testi teatrali più significativi scrisse nel 1920 L’imperatore Jones, in cui narra le vicende di un uomo di colore che, evaso dalle galere nordamericane, si autoproclama imperatore di una piccola isola a popolazione nera. Qui, a poco a poco, diviene un crudele oppressore dei suoi sudditi, i quali, stanchi di tali angherie, si ribellano, lo affrontano e lo mettono in fuga. Questo dramma, diviso in otto quadri, è noto in particolare per il monologo di Jones mentre è braccato dalla moltitudine degli oppressi che si vogliono vendicare. Una volta attraversata la foresta, l’imperatore spera, pur affamato e assetato, di raggiungere una nave e di trasferirsi in terre a lui meno ostili. Tuttavia, durante la disperata corsa nella boscaglia, Jones è colto da febbre alta e da allucinazioni, nelle quali rivede i momenti salienti della propria esistenza: il volto dell’uomo che anni addietro assassinò i compagni di galera e tutta una serie di situazioni che da sempre connotavano la razza negra. Improvvisamente si desta da questo stato di confusione e si ritrova lì da solo, nudo sulla nuda terra, ormai preda dei suoi inseguitori che lo raggiungono e lo uccidono. La notorietà sempre più vasta e la considerazione della maggior parte dei critici fece di Eugene O’Neill il più grande drammaturgo americano del Novecento prima dell’avvento di Arthur Miller. Fu autore anche di testi dal grande pathos, dalle atmosfere a tinte fosche, in cui i personaggi quasi rivivono problematiche assai vicine alla tragedia greca, come ne Il lutto si addice ad Elettra del 1931. In questo dramma egli riuscì a coniugare i miti dell’antichità con le capacità eroiche dell’America a lui contemporanea. Al Fato della classicità O’Neill sostituì il destino dell’uomo moderno, fondato sull’inconscio e sulla conoscenza di sé grazie all’affermazione di una nuova scienza, la psicanalisi. Una trilogia costituisce Il lutto si addice ad Elettra, il cui contenuto riporta alla memoria le vicende di Agammenone, Clitennestra ed Egisto, di Oreste e di Elettra, insomma la famiglia degli Atridi. L’ambientazione è però moderna e la storia si svolge in una cittadina americana durante gli anni della guerra civile. Nel primo dramma, intitolato Ritorno, incontriamo il generale Ezra Ammon che, alla fine della guerra, torna a casa dalla sua famiglia. Lo accoglie a braccia aperte la moglie Christine, che nel frattempo ha provveduto a tradirlo con il capitano Brant, del quale però si è anche innamorata la figlia Lavinia. A questo punto la tresca della madre con l’amato capitano viene scoperta dalla giovane figlia. Christine si sente perduta e, innamorata follemente del suo amante, decide di avvelenare il marito. Ormai in punto di morte, Ezra riesce a rivelare alla figlia Lavinia l’orrendo delitto compiuto dalla moglie. Nel secondo dramma, L’agguato, assistiamo al ritorno dalla guerra di Orin, il fratello di Lavinia. Terrorizzata che il figlio possa credere alla sorella, Christine tenta in ogni modo di convincerlo che Lavinia è impazzita. Ma il suo intento fallisce e la sorella riesce a dimostrare a Orin come la colpa della madre corrisponda a verità. A questo punto Orin vendica il proprio padre uccidendo il capitano Brant, mentre la madre sceglie di suicidarsi. L’ultima parte della trilogia, L’incubo, si svolge un anno dopo la morte degli amanti Brant e Christine. I due fratelli stanno tornando da un viaggio compiuto nei mari del sud. Lavinia vorrebbe in cuor suo allontanarsi definitivamente da Orin, ma teme che il rimorso possa condurre il fratello a rivelare alle autorità la loro vendetta compiuta. Allora cerca di allontanare Orin dalla donna che lo ama e da tutti, isolandolo completamente. Non potendo sopportare il senso di rifiuto di sé, che prova per aver ucciso Brant e per aver provocato conseguentemente la morte della madre, Orin si suicida. Lavinia, invece, è più forte e, visto che a lei si addice il lutto, sceglie di trascorrere il resto della propria esistenza nella casa paterna, che è stata palcoscenico di così grandi atrocità e inganni familiari.

Franco Manzoni