da Leadership Medica n. 9 del 2004
Abstract
Il morbo di Whipple è una rara malattia sistemica, le cui prime descrizioni risalgono agli inizi del secolo scorso. Il Tropheryma whippelii, l’agente eziologico della condizione, è un actinomicete Gram+, ubiquitario nell’ambiente e frequentemente dimostrato anche in individui sani. Di conseguenza, la rarità della condizione è legata all’esistenza di un cofattore individuale, responsabile della suscettibilità a sviluppare la malattia, verosimilmente rappresentato del deficit dell’interleuchina 12. Clinicamente, il morbo di Whipple si manifesta in maniera estremamente polimorfa, potendo determinare, in soggetti principalmente di sesso maschile e di età superiore ai 50 anni, la comparsa di sindromi gastroenterologiche (malassorbimento), cardiologiche, reumatologiche, neurologiche ed ematologiche. In particolare, le manifestazioni articolari precedono di anni l’insorgenza di quelle intestinali. I sintomi neurologici, che sono quelli più temibili, sono appannaggio soprattutto delle recidive secondarie alla sospensione della terapia antibiotica. Tale terapia, al contrario, andrebbe assunta in maniera continua e l’antibiotico attualmente più utilizzato è il trimetoprim-sulfametossazolo. A tutt’oggi la diagnosi si basa sulla presenza delle alterazioni specifiche nelle biopsie intestinali: la presenza nella lamina propria di macrofagi con citoplasma ampio e schiumoso, ripieni di materiale PAS+. Fin dalla sua prima descrizione il morbo di Whipple è stato considerato come una malattia intestinale ad eziologia incerta, caratterizzata dalla presenza nella lamina propria dell’intestino tenue di cellule di aspetto schiumoso, responsabile sul piano clinico di un’importante sindrome da malassorbimento (1). Vedremo più avanti come le più recenti acquisizioni hanno consentito di modificare, ma soprattutto ampliare, le nostre conoscenze su questa condizione che, tuttavia, almeno per un carattere, è rimasta invariata: la sua effettiva rarità.
Malattia rara (qualsiasi affezione con una prevalenza inferiore a 5 casi / 10.000 individui) non vuol assolutamente dire malattia non importante. Le malattie rare sono oltre 5000, possono essere fatali, o comunque croniche invalidanti, e rappresentano il 10% delle patologie conosciute. Le industrie farmaceutiche, in relazione al mercato limitato, hanno scarso interesse a sviluppare la ricerca e la produzione di farmaci cosiddetti “orfani”, potenzialmente utili per tali patologie, mentre, invece, le malattie rare costituiscono un rilevante problema sociale per le difficoltà spesso incontrate dai pazienti ad ottenere diagnosi e cure adeguate. Anche per tali motivi, è stata creata, dal Ministero della Salute, una rete nazionale con lo scopo di promuovere l’informazione su di esse, sviluppare azioni di prevenzione, attivare la sorveglianza, migliorare gli interventi volti alla loro diagnosi e terapia. La rete è costituita da presidi accreditati per esperienza clinica e competenza scientifica, dotati di strutture di supporto e complementari, inclusi i servizi per l’emergenza e per la diagnostica biochimica e genetico-molecolare.
La Cattedra ed Unità di Gastroenterologia del Policlinico San Matteo dell’Università di Pavia è centro di riferimento nazionale per il morbo di Whipple (2) e fa parte di un progetto internazionale di ricerca, su tale condizione sponsorizzato dalla Comunità Europea (3).
Cenni Storici
George Hoyt Whipple, premio Nobel per la Medicina per i suoi studi sull’anemia perniciosa, descrisse nel 1907, ancora studente presso la John’s Hopkins University, il caso di un paziente deceduto per una malattia allora sconosciuta caratterizzata dall’infiltrazione della mucosa intestinale da parte di grosse cellule e da adenomegalia mesenterica, pleurite, pericardite ed endocardite (1). Ma questo non è il “primo” caso di morbo di Whipple riportato in letteratura. Già nel 1895 Allchin e Hebb descrissero al Westmister Hospital di Londra un paziente con “linfangectasia gastrica”, diarrea e vomito, deceduto in pochi mesi con un quadro di malnutrizione severa (4). Molti anni più tardi, nel 1961, un patologo, Morgan, riorganizzando l’archivio storico del museo del Westmister Hospital, capì che il tessuto del paziente di Allchin e Hebb non era stomaco bensì intestino tenue sezionato tangenzialmente e provò a colorarlo con PAS, nel sospetto si trattasse di morbo di Whipple (5). Il preparato risultò intensamente PAS positivo, nonostante fossero trascorsi 66 anni, confermando tale diagnosi, secondo quello che rappresenta il criterio corrente per il riconoscimento di questa condizione.
Dal 1907 al 1943 furono descritti solo altri 14 casi, successivamente, sulla base della maggiore diffusione della biopsia intestinale, le segnalazioni aumentarono: 12 nuovi casi furono riportati fino al 1949 e 77 tra il 1950 e il 1959 (6). La prima diagnosi effettuata su un paziente vivente risale al 1947 e fu posta esaminando un linfonodo asportato laparotomicamente, suggerendo così che la malattia poteva localizzarsi anche in distretti diversi dall’intestino tenue (7). Che in realtà il morbo di Whipple fosse una malattia sistemica (cosa che, peraltro, Whipple aveva anticipato nella sua prima descrizione) venne chiarito una decina d’anni più tardi con la descrizione di pazienti che presentavano lesioni sovrapponibili a quelle intestinali anche a livello di linfonodi, articolazioni, endocardio, polmone e sistema nervoso centrale (8,9).
Sul piano patologico, Black-Shaffer fornì nel 1949 il criterio istologico patognomonico per la diagnosi di morbo di Whipple, cioè la presenza di glicoproteine positive alla colorazione con acido periodico di Schiff (PAS) all’interno di cellule della lamina propria dell’intestino che risultarono essere macrofagi (10). Le prime fondate ipotesi sull’eziologia della condizione scaturirono dall’evidenza che l’impiego di antibiotici ad ampio spettro, cloramfenicolo o tetracicline, era seguito da una pronta e duratura remissione clinica e, almeno in parte, istologica (11). La natura microbiologica della condizione venne confermata dalla visione in microscopia elettronica delle lesioni intestinali (Figura 1) che permise di chiarire che il materiale PAS positivo contenuto nei vacuoli lisosomiali dei macrofagi (fagosomi) era, in realtà, costituito dalle capsule, in varia fase di digestione, di bacilli Gram+, relativamente monomorfi, delle dimensioni di 1.2 m x 0.25 m (12,13). Che tali microrganismi fossero provvisti di bassa virulenza trovava conferma nella costante assenza di necrosi tissutale.
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Figura 1 |
L’eziologia del morbo di Whipple, tuttavia, rimaneva un mistero e lo sarebbe rimasto per molti anni ancora. Pochi, a motivo della risposta agli antibiotici e della abbondante presenza di bacilli in corrispondenza delle lesioni, dubitavano di una eziologia batterica della condizione che, tuttavia, non configurava una vera e propria malattia infettiva per l’assenza di evidenze a favore di una trasmissione diretta, di casi familiari o di focolai epidemici.
Nel 1992, all’Università di Stanford, Relman e coll. (14) hanno amplificato, mediante PCR, la sequenza nucleotidica della subunità 16 dell’RNA ribosomiale batterico, estratto dalla biopsia intestinale di un paziente affetto da morbo di Whipple, e ciò ha permesso di identificare una sequenza specifica di 284 basi. Il nuovo bacillo così identificato è stato definito Tropheryma whippelii ed è stato nosograficamente collocato tra gli Actinomiceti Gram+ ricchi di guanina e citosina, appartenenti alla famiglia degli Actinobatteri (15).
Le principali tappe nella storia del morbo di Whipple sono riassunte nella Tabella 1.
Epidemiologia e Patogenesi
Le manifestazioni cliniche così complesse e polimorfe ed i fattori eziologici, solo di recente chiariti, non hanno rappresentato negli anni gli unici elementi di fascino di questa condizione. Molti punti oscuri sono stati risolti con l’identificazione del Tropheryma whippelii, ma se la maggiore prevalenza della malattia nella V e VI decade di vita può essere spiegata dal tempo necessario per un bacillo a bassa virulenza a determinare le caratteristiche lesioni della malattia, la frequenza pressoché assoluta del morbo di Whipple nel sesso maschile (rapporto maschi/femmine pari a 9/1) non è stata ancora spiegata. La Tabella 2 mostra le caratteristiche demografiche e cliniche di una serie di 14 pazienti da noi seguita.
Tutti i nostri casi sono di sesso maschile e solo uno, il più recente, è stato diagnosticato prima della V decade.
Il principale “reservoir” degli Actinomiceti è costituito dal terreno ed un aspetto particolarmente interessante dell’epidemiologia del Whipple è rappresentato dal fatto che la maggior parte dei pazienti riportati in letteratura (e ciò coincide con la nostra personale esperienza) erano agricoltori, carpentieri, minatori o avevano come hobby principale il giardinaggio (6). A conferma del contributo che la scoperta del Tropheryma whippelii ha portato alla soluzione di queste problematiche, il gruppo di Axel Von Herbay (16) ha ritrovato il batterio in ben 25 su 38 campioni di acque reflue della valle del Reno. Il Tropheryma, pertanto, risulta essere molto più ubiquitario di quanto fosse lecito attendersi. Inoltre, mediante PCR, esso è stato isolato nel 5% delle biopsie intestinali e nell’11% di campioni di succo gastrico di 105 pazienti dispeptici (17) e, addirittura, nel 35% di campioni di saliva di individui sani (18). Ammesso e concesso che la specificità di questi test sia adeguatamente elevata, si potrebbe concludere che la presenza nell’ambiente e nell’uomo del Tropheryma whippelii sia molto maggiore di quella del morbo di Whipple e ciò suggerisce, quindi, che per sviluppare la malattia siano necessari fattori individuali, capaci di condizionare la transizione da “infezione” a malattia, e che determinano l’effettiva rarità di quest’ultima.
Pur essendo il morbo di Whipple una condizione con molti risvolti immunologici, la sua predisposizione non sembra legata al possesso di geni appartenenti al sistema HLA. Una metanalisi effettuata da Dobbins(6) suggeriva una debole ma significativa associazione con l’HLA B27, estremamente interessante se si pensa che ratti transgenici per il B27 sono portatori di flogosi intestinale cronica ed artrite. Successivi risultati da parte del nostro gruppo (20) e di altri (21) hanno, tuttavia, smentito tale associazione. In particolare di 9 pazienti da noi studiati, nessuno era portatore di spondilo-artrite e nessuno era HLA-B27+ (Figura 2).
È verosimile che la individuale suscettibilità al morbo di Whipple sia da ricondursi ad un difetto immunitario ed, in particolare, ad un deficit della produzione di interleuchina 12 da parte delle cellule del sistema monocito-macrofagico (22,23). Tale deficit potrebbe determinare una ridotta capacità di difesa dell’organismo nei confronti di batteri intracellulari (22) e, conseguentemente, una ridotta capacità dei macrofagi di eliminare le cellule infettate dal Tropheryma whippelii. A questo proposito, il nostro gruppo sta valutando possibili alterazioni dei geni codificanti e “promoter” per l’IL-12.
Figura 2 |
Manifestazioni cliniche e complicanze
La Tabella 3 riporta la prevalenza media delle manifestazioni cliniche del morbo di Whipple, deducibile dal riesame critico di alcune grosse serie di pazienti riportate in letteratura. Risulta evidente, come già anticipato, che il morbo di Whipple non debba essere considerato una malattia esclusivamente intestinale, bensì un’infezione sistemica, caratterizzata dal deposito di materiale PAS+ (in altre parole dal deposito di batteri) in numerosi organi ed apparati.
Da ciò essenzialmente dipende il suo polimorfismo clinico che può manifestarsi con sindromi gastroenterologiche (malassorbimento), cardiologiche (endocarditi), reumatologiche (poliartriti migranti sieronegative), neurologiche (atassia, disturbi piramidalici ed extrapiramidalici, demenza progressiva, mioaritmia oculo-masticatoria, a seconda della localizzazione dell’infezione a livello del sistema nervoso centrale) ed ematologiche (manifestazioni trombotiche legate alla trombocitosi reattiva o ad altri difetti della coagulazione) (24,25).
Tutti gli studi clinici finora pubblicati sono, però, suscettibili di un “bias” sostanziale. In ciascuno di essi, infatti, l’indagine diagnostica è sempre stata la biopsia intestinale e ciò può avere fittiziamente aumentato la prevalenza (vicina a valori assoluti) dei sintomi gastroenterici. Nulla vieta di pensare che quando la diagnosi si baserà, anche nella pratica routinaria, sulla ricerca con tecniche di biologia molecolare del Tropheryma in altri tessuti ed in altre condizioni a rischio (artriti migranti sieronegative, encefaliti criptiche, pleuropericarditi ricorrenti), la localizzazione intestinale non risulterà la più frequente e la stessa prevalenza globale della malattia risulterà maggiore. A conferma, recentemente, sono state segnalate forme senza coinvolgimento gastrointestinale (26,27) e, d’altra parte, il coinvolgimento articolare precede generalmente di qualche anno le manifestazioni intestinali in più del 60% dei casi (26,28).
Per ciò che riguarda tali manifestazioni articolari, a livello assiale la sacroileite è molto più frequente della spondilite anchilosante. A causa della presenza di artrite e di malassorbimento il morbo di Whipple dovrebbe essere una condizione frequentemente osteoporizzante. In realtà un nostro studio (29) dimostra che a paragone di controlli comparabili per sesso e per età, pazienti affetti da morbo di Whipple hanno una densità minerale ossea significativamente ridotta solo a livello femorale. Anche i parametri di metabolismo e turnover osteo-minerale sono meno compromessi che in altre enteropatie. È probabile che in questa condizione la forte preponderanza del sesso maschile e l’esordio stesso della malattia ad un’età largamente successiva al raggiungimento del picco di massa osseo rappresentino dei fattori protettivi nei confronti della comparsa di osteoporosi.
Esiste, infine, la possibilità che le varie manifestazioni cliniche della malattia possano essere determinate da differenze genotipiche e fenotipiche tra i vari ceppi di Tropheryma whippelii, tali da conferire una differente capacità nel coinvolgere diversi organi ed apparati. Attualmente, sono stati identificati due ceppi batterici differenti, denominati Slow-Marseille and Twist-Marseille, e 7 diverse varianti sulla base di differenze genotipiche, identificate come tipo 1-3 di Hinrikson (30,31), 4-6 di Maiwald (32) e tipo 7 di Geissdorfer (33). Tuttavia, il rapporto tra genotipi batterici e manifestazioni cliniche è ancora un problema non risolto: a tutt’oggi non è noto se il riscontro di batteri in soggetti asintomatici sia legato alla presenza di forme non patogene (34), così come si ignora se esista una differenza, in termini biomolecolari, tra batteri isolati in pazienti con forma classicamente sistemica e batteri isolati in pazienti con forme atipiche, paucisintomatiche con solo coinvolgimento endocarditico (35) o reumatologico (36) o neurologico (37,38).
Le recidive di questa malattia, in genere determinate o dalla scelta di un antibiotico non in grado di attraversare la barriera emato-encefalica o dalla prolungata sospensione della terapia, assumono caratteristiche di particolare gravità perché spesso legate ad una localizzazione delle lesioni al sistema nervoso centrale.
Diagnosi e Terapia
Come si è detto la diagnosi si basa sulla biopsia intestinale. La Figura 3 (a) e (b) mostra le alterazioni caratteristiche evidenti nella mucosa intestinale di un nostro paziente con morbo di Whipple. In (a) è evidente, in ematos-silina/eosina, la presenza nella lamina propria di cellule con citoplasma ampio e schiumoso. In (b), dopo colorazione con PAS, è evidente come tali cellule (macrofagi) siano ripiene di materiale rosso PAS+. La massiccia infiltrazione della lamina propria da parte di questi macrofagi PAS+ determina le altre due caratteristiche alterazioni istopatologiche, la compressione del capillare chilifero del villo, che per questo risulta dilatato, e la perdita della normale conformazione del villo stesso, che diviene più corto e tozzo.
Figura 3 |
Per ciò che riguarda il trattamento, se lasciato a sé stesso il morbo di Whipple può risultare fatale. Nella maggior parte dei pazienti la terapia antibiotica porta ad un rapido miglioramento delle condizioni cliniche e ad una remissione duratura (6,39,40). I vari schemi terapeutici fino ad oggi utilizzati sono basati esclusivamente su osservazioni empiriche (40) e per lungo tempo non hanno assicurato una copertura nei confronti delle recidive neurologiche della malattia (41).
Tetracicline e penicilline, infatti, non oltrepassano la barriera emato-encefalica, non prevengono le complicanze neurologiche e la loro somministrazione isolata è da evitare. L’antibiotico attualmente più utilizzato è il trimetoprim-sulfametossazolo (39), che deve essere continuato pressoché indefinitamente. Il suo meccanismo d’azione si basa, almeno in parte, attraverso una inibizione competitiva dell’enzima diidrofolato-reduttasi, configurando una alterazione della sintesi delle purine e pirimidine e, in ultima analisi, un blocco della replicazione cellulare tramite la insufficiente produzione di tetraidrofolato. Recentissime acquisizioni, tuttavia, indicano che il genoma del Tropheryma whippelii risulta mancante della sequenza codificante per il diidrofolato-reduttasi (42,43) e, di conseguenza, l’esatto meccanismo del farmaco a livello del metabolismo batterico deve essere ancora chiarito. D’altra parte il trimetoprim-sulfametossazolo non sempre previene la localizzazione cerebrale. Di conseguenza, le Ciclosporine di III generazione rappresentano una valida alternativa nel trattamento di questa condizione.
Conclusioni
Il morbo di Whipple è una malattia rara, complessa, di natura biologica, potenzialmente letale o, comunque, fortemente invalidante. Poiché le malattie rare per essere trovate devono essere cercate, è essenziale che sia lo specialista (internista, gastroenterologo, reumatologo, neurologo, cardiologo) che il medico di medicina generale mantengano un atteggiamento di elevato sospetto clinico nei confronti di tale condizione. La tipologia abituale del paziente con Whipple è quella di un individuo di sesso maschile, di età compresa tra i 50 ed i 70 anni, con una vecchia storia di artrite migrante e con segni di malassorbimento, linfoadenomegalia periferica o mesenterica e, a volte, melanodermia. Il sospetto clinico verrà rafforzato dalla concomitanza di manifestazioni endocarditiche, trombotiche, neurologiche.
Prof. Gino Roberto Corazza
Cattedra ed Unità di Gastroenterologia
IRCCS Policlinico San Matteo
Università di Pavia, Italia
Dr.ssa Emanuela Miceli
Cattedra ed Unità di Gastroenterologia
IRCCS Policlinico San Matteo
Università di Pavia, Italia
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