da Leadership Medica n. 4 del 2003
L'epidemia di SARS richiama alla mente le grandi pestilenze del passato, il panico che accompagnava quei tragici eventi e le misure adottate per contenere il contagio.
La maggior parte delle misure adottate oggi per contenere la SARS sono le stesse adottate secoli fa per contrastare la peste e le altri grandi epidemie come il vaiolo o il colera.
"Dance macabre", Vincent of Kastav, 1474, affresco. Foto Tomislav Vignjevic @ researchgate.net
La storia dell’uomo è stata accompagnata da grandi epidemie che ne hanno condizionato l’evoluzione ed il percorso storico. Quando le popolazioni hanno iniziato a raggiungere una certa densità ed hanno incrementato la mobilità hanno creato i presupposti per la diffusione di malattie epidemiche, capaci di colpire in breve tempo molti individui. Non è sempre facile poter identificare la malattia responsabile di ogni singola epidemia.
Con il termine “peste” oggi riferito ad una specifica malattia, si indicavano tutte le malattie a grande diffusione ed elevata mortalità.
Le parole peste e contagio incutevano terrore perché collegabili immediatamente alla morte.
Da tempi immemorabili la peste era considerata un flagello divino ragion per cui essa veniva esorcizzata facendo ricorso alla mediazione dei santi, come San Rocco, o della Madonna.
È per ringraziare la Madonna per aver consentito la fine della peste a Venezia che i veneziani fecero erigere nel 1600 Santa Maria della Salute, la cui immagine fu usata come logo per la I Conferenza Europea di Travel Medicine (ECTM1), Venezia 1998.
Oltre ad essere interpretate come castigo divino le pestilenze vennero interpretate facendo ricorso all’astrologia (congiunzioni ed opposizioni di pianeti) o alla teoria dell’avvelenamento (ad ebrei e lebbrosi venne attribuita la responsabilità della peste nera del 1300, agli “untori” – come scrive Manzoni nei Promessi Sposi- quella del 1630).
Tutte queste interpretazioni esprimevano chiaramente una radicata sensazione di impotenza e ineluttabilità. La spaventosa mortalità delle epidemie era ben nota e tristemente e fatalmente attesa.
Necessità di informazioni attendibili e tempestive
Tutti coloro che erano istituzionalmente preposti al governo delle città erano interessati alla salute dei loro concittadini e si rendevano conto della necessità di avere notizie aggiornate sulle condizioni di salute delle popolazioni vicine essendo consapevoli che soltanto informazioni tempestive sulla comparsa di qualche focolaio epidemico costituiva la più efficace premessa per misure preventive.
Nei secoli passati, i canali di informazione di cui le autorità si potevano servire erano i viaggiatori - per terra o per mare - che raccoglievano informazioni nelle stazioni di posta o nei porti. Questi viaggiatori si potevano considerare come le sentinelle dell’attuale sorveglianza epidemiologica o ambasciatori sanitari inconsapevoli. A volte, le autorità davano a validi funzionari o a medici l’incarico di recarsi ufficialmente o in segreto nei paesi vicini, negli stati confinanti ove vi fosse il sospetto di qualche malattia contagiosa per riportare in patria notizie attendibili.
Dalla metà del 1500, le autorità si scambiarono informazioni di carattere sanitario, impegnandosi a non celare la verità, sempre più convinte che questa reciproca lealtà era la più seria garanzia di tutela della salute reciproca.
I vari Magistrati, le varie Congregazioni di Sanità inviavano perciò alle strutture estere consorelle circolari puntuali ed aggiornate, ma in pratica accadeva che non sempre i medici erano d’accordo sul carattere epidemico di certe malattie o che le autorità dimostrassero incredulità di fronte alla diagnosi di un medico o che intenzionalmente nascondessero alla popolazione la gravità della situazione per non destare allarme. Spesso accadeva che la popolazione si allarmasse a dismisura o restasse pericolosamente tranquilla. Accadeva anche che molte voci allarmistiche venissero diffuse di proposito e che le autorità fossero costrette a diffondere dichiarazioni pubbliche di smentita.
La messa al bando
Una delle misure più impegnative messe in atto da tutti gli stati per proteggersi dalle pestilenze era la messa al bando di una città, di un paese dove si sospettava l’esistenza di un focolaio di contagio. La messa al bando era strettamente correlata ad un’altra misura di protezione: l’istituzione di cordoni sanitari in terra o in mare per evitare il contagio.
La messa al bando va considerata come il mezzo più frequentemente usato per cercare di realizzare una prevenzione delle malattie epidemiche.
Essa comportava l’interruzione di ogni rapporto commerciale e di comunicazione con la località o il paese considerato potenzialmente fonte di contagio. I paesi dell’Impero Ottomano e dell’Africa venivano spesso banditi perché ritenuti pericolosi. Per diffondere il messaggio del rischio e della necessità di interrompere viaggi verso località o paesi, le autorità civili o sanitarie usavano persone chiamate “banditori” che avevano il compito di diffondere questo messaggio tra la popolazione sparsa sul territorio e per lo più analfabeta. L’ordine trasmesso attraverso il banditore veniva chiamato Bando, Editto, Ordinanza o Decreto.
La disinfezione delle lettere
La posta è stata considerata per secoli un pericoloso veicolo di contagio: la carta era di per sé ritenuta suscettibile di ricevere, conservare e trasmettere il contagio. E’ facile pertanto immaginare la diffidenza da cui era pervaso chi - prima ancora del destinatario - doveva toccare una missiva lungo il viaggio che essa intraprendeva per giungere a destinazione.
La disinfezione della posta (lettere, manoscritti, dispacci, giornali) è stata una delle più comuni misure messe in atto nell’intento di prevenire la diffusione del contagio. Le lettere potevano essere disinfettate esternamente o anche esternamente ed internamente. Lungo le strade consolari o comunque lungo i percorsi dei flussi postali si trovavano le stazioni di disinfezione dove un certo numero di addetti, forniti di guanti e grembiuli di tela cerata prendevano con lunghe pinze le lettere, le ponevano su un tavolo, le aprivano, le disinfettavano per poi raccogliere e bruciare ogni frammento di carta rimasto.
Le modalità di disinfezione sono state diverse a seconda delle zone e delle epoche.
Per secoli, le virtù purificatrici attribuite al fuoco hanno tranquillizzato gli incaricati della disinfezione delle lettere. Si usavano legni odorosi, sostanze aromatiche oppure sterpaglie. Purtroppo la carta si bruciava facilmente per cui era necessaria una grande attenzione nei passaggi delle lettere sulla fiamma. Si spaccava nel senso della lunghezza l’estremità di una canna e nello spacco si infilava il foglio da passare sulla fiamma. L’immersione nell’aceto era anch’essa ritenuta un sistema molto sicuro di disinfezione.
Le lettere erano aperte, spruzzate con l’aceto, quindi asciugate. Anche questo sistema aveva degli inconvenienti poiché non tutti gli inchiostri resistevano all’aceto ed alcuni manoscritti diventavano illeggibili: danno irreparabile quando si trattava di lettere commerciali o di documenti bancari. Nel tentativo di evitare una parte almeno dei suddetti inconvenienti, gli operatori cercavano di abbreviare al massimo il tempo dell’immersione.
Entrambe le modalità di disinfezione esigevano l’apertura delle lettere, quindi davano la possibilità di violare il segreto epistolare. In certe stazioni di disinfezione, l’operazione avveniva in presenza di un funzionario degli Affari Esteri o di un funzionario di Polizia.
Solo nel 1886, a seguito della scoperta dell’agente eziologico del colera e dopo la Conferenza Sanitaria di Parigi (1855) le lettere furono considerate estranee alla possibilità di diffondere malattie e qualche tempo dopo fu sospesa la loro disinfezione. E’ paradossale che a distanza di tanto tempo – come è accaduto negli USA durante i mesi in cui spore di antrace venivano diffuse come azione di bioterrorismo - il contagio sia avvenuto proprio attraverso uno strumento considerato erroneamente pericoloso per oltre 400 anni.
Misfatti sanitari e pene correlate
Nei secoli passati, le rigide leggi in materia di sanità erano enunciate sempre in maniera molto chiara. Quindi era facile battezzare come reo chi le infrangeva e difficile sfuggire al loro rigore. I misfatti più frequenti si possono ricondurre a quelli espressamente previsti nella maggior parte dei Regolamenti Sanitari come l’oltrepassare i limiti prescritti del cordone sanitario. Le pene erano particolarmente severe e comportavano spesso la pena di morte, mutilazioni o torture. Le imbarcazioni potevano essere spesso responsabili di gravi misfatti sanitari. Le pene erano estese talvolta ai familiari.
Ben nota è la “Storia della colonna infame” narrata da Alessandro Manzoni: questa colonna fu eretta nel 1630 a Milano sull’area risultante dalla demolizione della bottega di un barbiere condannato come untore affinché tutti potessero ricordare l’evento e l’esemplare condanna. La delazione era all’ordine del giorno, non sempre dettata da una legittima paura, a volte legata a qualche interesse particolare ed al desiderio di vendetta.
Sulla scalinata della Basilica Palladiana di Vicenza si può ancor oggi ammirare il marmoreo mascherone nella cui bocca beffarda ogni cittadino poteva inserire le sue denunce segrete in materia di sanità.
Documenti sanitari per viaggi di terra e di mare In tempi di contagio scattavano misure restrittive finalizzate a proteggere le comunità ancora indenni. Gli arrivi di persone, merci ed animali erano visti con occhio spaventato e tutti cercavano di proteggersi da questi possibili veicoli di infezione.
Una delle misure di prevenzione più antiche, la più diffusa e meglio documentata, fu l’istituzione della Fede di Sanità, attestato di cui si doveva munire chi iniziava un viaggio di terra e che “faceva fede”, certificava lo stato di salute di cui godeva il paese di partenza del viaggiatore e di conseguenza, presumibilmente, del viaggiatore stesso.
La Fede di Sanità, vero e proprio Passaporto Sanitario, era considerata un documento particolarmente importante che le autorità nel timore di frodi seguivano attentamente dal momento della stampa fino a quello della consegna a chi lo doveva compilare.
Mentre l’analogo documento che accompagnava una imbarcazione – la Patente di Sanità - era necessariamente rilasciata dall’autorità di un porto (da una Deputazione Sanitaria investita di grandi poteri), la Fede di Sanità era rilasciata anche in piccoli agglomerati urbani.
Mentre le Patenti di Sanità sono il più delle volte belle stampe munite dei noti bolli di sanità, le Fedi sono il più delle volte piccoli e semplici foglietti manoscritti compilati da un impiegato del Comune.
Le Fedi dovevano riportare le caratteristiche somatiche della persona cui erano rilasciate insieme ad ogni altro elemento utile per una sicura identificazione. Se il cammino era lungo, il viaggiatore incontrava sicuramente per strada qualche controllo sanitario dove si disinfettava il documento e si aggiungeva qualche annotazione che serviva principalmente per confermare i luoghi dove il viaggiatore era transitato.
Ogni imbarcazione, quando si accingeva a salpare, doveva munirsi di alcuni documenti - diversi a seconda della stazza, del tipo di vela, del porto di imbarco, del carico e della nazionalità.
Tra questi vi era la Patente di Sanità, considerato il documento più importante nei tempi in cui infierivano epidemie. Alcune patenti erano prestampate per un uso specifico: alcune per il trasporto del sale, altre per accompagnare le barche da pesca, altre ancora accompagnavano i passeggeri imbarcati o le merci che riempivano la stiva o gli animali. Le patenti dovevano essere scritte con inchiostro e portare il bollo delle autorità che le rilasciavano.
Tutti i Magistrati di Sanità – nell’ambito del rispetto verso i paesi stranieri - si impegnavano ad annotare sulle patenti che rilasciavano la triste evenienza dei primi casi di malattie contagiose.
Le Patenti di Sanità venivano accuratamente controllate da funzionari o medici deputati al controllo sanitario. Se le imbarcazioni provenivano da porti considerati sospetti, se durante la navigazione la barca era stata attaccata da corsari, l’equipaggio, i passeggeri ed il carico venivano messi in quarantena.
Alla fine del periodo di quarantena il medico visitava nuovamente equipaggio e passeggeri e dava eventualmente il suo benestare al proseguimento del viaggio. In genere le patenti del 1600 e del 1700 rispecchiano la religiosità della gente di mare riproducendo spesso il Cristo, la Madonna ed i santi protettori.
I lazzaretti
Con questo termine venivano indicati quegli ospedali dove un tempo si curavano i lebbrosi. Essi indicavano poi quei luoghi recintati presso i porti marittimi dove le navi, i naviganti e le loro merci venivano sottoposti a periodi di quarantena in tempi sospetti di pestilenza. A seconda delle epoche e delle località il lazzaretto ha assolto il compito di luogo di ricovero di malati molto gravi oppure di luogo nel quale uomini, animali e merci restavano isolati per tutto il periodo della quarantena.
La Città/Stato di Venezia, la Repubblica della Serenissima, fu la prima ad introdurre alla metà del 1300 il primo lazzaretto e le prime misure di quarantena. Alcuni lazzaretti di grande dimensioni furono realizzati da architetti famosi e si possono ammirare ancor oggi come quello di Ancona nelle Marche e quello di San Gregorio a Milano, noto per il ruolo svolto durante l’epidemia di peste del 1576. I lazzaretti erano dotati di un regolamento che prevedeva, come ad esempio quello di Nisida (Napoli), la distinzione in tre classi a seconda del prezzo pagato. L’organico del lazzaretto prevedeva la figura del medico, del cappellano, del custode, del curato, del capitano e delle guardie.
Tutte queste figure dovevano render conto ad un Direttore. Il periodo di contumacia aveva una durata di quaranta giorni perché, secondo la dottrina ippocratica dei giorni critici, il quarantesimo è l’ultimo giorno nel quale può manifestarsi una malattia acuta, come appunto la peste. Il presupposto delle misure di contumacia fu la necessità di evitare la totale paralisi che faceva seguito alla messa al bando che in ambito marinaro ebbe per molti anni come conseguenza il rifiuto delle imbarcazioni che giungevano da paesi infetti, specie dal Levante Ottomano, considerato perenne serbatoio di contagio. Il termine quarantena fu usato dapprima per indicare che l’isolamento durava quaranta giorni e tale fu conservato quando la contumacia fu limitata a tre quarti di luna (22 giorni) o a due settimane. Le infinite disquisizioni sulla durata della contumacia fanno capire le difficoltà in cui si trovava chi doveva prendersi la responsabilità di garantire la tranquillità e la salute della popolazione con quella di non penalizzare il commercio.
Nel ‘700/’800 un viaggio per le Americhe o per il Nord Europa poteva durare ben oltre un mese: l’equipaggio quindi tornava al porto di partenza dopo diversi mesi dove l’attendeva una contumacia di un altro mese. Capitava dunque che qualche marinaio approfittasse della notte per scappare pur consapevole dei rischi che correva. Insieme alle merci anche gli animali dovevano restare in quarantena.
Alcuni lazzaretti avevano stalle molto ampie. Le spese della quarantena di quanti si spostavano via terra erano a carico dei viaggiatori, quelle per via mare erano a carico dei protari delle imbarcazioni.
Oltre alla quarantena nei lazzaretti, nei periodi di epidemie, le persone potevano essere sottoposte a sequestro domiciliare, specie se la famiglia che abitava in quel luogo aveva avuto un decesso dovuto alla malattia epidemica che infieriva in quel momento.
I medici
Durante i periodi di epidemia i medici erano in prima fila. La spaventosa contagiosità della peste non risparmiava nessuno che avesse rapporto con gli appestati, cosicché insieme a migliaia di popolani morivano di peste o di altre epidemie anche i medici. Il timore di non avere più medici era molto sentito tanto che, in considerazione del rischio di esser contagiato e morire, si invitava talvolta i medici a vivere in abitazioni di campagna. Alcune volte, il medico, consapevole di rischiare la vita, sceglieva la soluzione della fuga attirando su di sé lo sdegno e l’ira da parte della comunità e delle autorità sanitarie e civili.
Di fronte all’incalzare del male, la gente cercava i medici più bravi, più pronti e disponibili. I medici che prestavano la loro attività nei lazzaretti erano i più esposti al contagio e venivano mal visti dalla popolazione perché considerati potenziali fonti di contagio.
Durante i periodi di peste il medico adottava ovviamente misure di protezione individuale, tra cui la maschera con il caratteristico becco adunco ed un vestiario che copriva la maggior parte del corpo.
I rimedi
L’uomo ha sempre cercato qualche rimedio contro le malattie pestilenziali e nei trattati del ‘400-‘700 si trovano molti consigli che venivano proposti in assenza di qualsiasi conoscenza sull’eziologia e patogenesi delle malattie. Tra questi il salasso, lo sfregamento del malato, il trattamento evacuante. Mille altri rimedi più o meno codificati arricchivano l’armamentario terapeutico dei medici nel corso delle epidemie.
Vi era poi una medicina popolare prodiga di rimedi basati sulla superstizione e sulla magia. Vi era poi il ricorso a santi protettori o a pratiche miranti a curare i malati di peste o a proteggere le persone dal contagio.
Ai rimedi della medicina popolare sarà dedicata una Mostra a Firenze, nei locali del Museo di Antropologia ed Etnologia dell’Università di Firenze, nelle prossime settimane.
Walter Pasini
Director of The World Health Organization - Collaborating Center for Tourist Health (WHOCC)