Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 271 del 2008

Il dissenso rispetto a terapie future deve essere manifestato in modo “espresso, inequivoco, attuale ed informato” (Cass n. 23676 del 15 set- tembre 2008).

In una recente sentenza la Suprema Corte ha ribadito il principio - già espresso nella sentenza sul caso di Eluana Englaro - il diritto di non curarsi è un diritto di rilevanza costituzionale, anche se tale condotta espone al rischio stesso della vita. Con una precisazione, però, che il dissenso rispetto a terapie future deve essere manifestato in modo "espresso, inequivoco, attuale ed informato" (Cass. n. 23676 del 15 settembre 2008). Il caso sottoposto al giudizio della Corte riguardava la richiesta di risarcimento danni avanzata da un testimone di Geova che, nonostante il rifiuto alla trasfusione di sangue, peraltro manifestato esclusivamente su un cartellino recante la scritta "niente sangue", era stato comunque sottoposto dai  medici ad una serie di trasfusioni.

La Corte, dopo aver affermato che il diritto di non curarsi non può essere messo in discussione, ha proseguito osservando che il medico è obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico quando il testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, ha negato il consenso alla terapia trasfusionale. E ciò perché il conflitto tra i due beni - entrambi costituzionalmente tutelati - della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo. Pertanto ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali. Ne deriva che un rifiuto "autentico" della emotrasfusione da parte del testimone di Geova capace - avendo, in base al principio personalistico, ogni individuo il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell'anima - esclude che qualsiasi autorità statuale-legislativa, amministrativa o giudiziaria possa imporre tale trattamento: "il medico deve fermarsi", hanno testualmente affermato i Giudici. Posta tale precisazione, la Corte ha però osservato che la questione di diritto sottoposta al suo esame aveva ad oggetto la reale efficacia del "non consenso" così come  manifestato  dal paziente sul piano tanto cronologico quanto contenutistico-formale. Secondo la Corte, nell'ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un'intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto "ideologica", ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una "precomprensione". In definitiva, il dissenso deve seguire e non precedere l'informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile. Deve trattarsi di un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. Questo perché, a fronte di un sibillino sintagma "niente sangue" vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito ("invero insostenibile", hanno testualmente osservato i Giudici) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale "resistenza" delle sue convinzioni religiose a fronte dell'improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue.

Pertanto, se la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, allo stesso modo la efficacia di uno speculare dissenso ex ante, privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente. Questo perché altra è l'espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita. I Giudici hanno peraltro precisato che quanto sopra non significa che in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico - religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba perciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede.

Ma è innegabile, in tal caso, l'esigenza che a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, di- mostrata l'esistenza del proprio potere rappresentativo in merito alla questione, confermi tale dissenso all'esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari. In definitiva, quindi, la Corte di Cassazione ritiene che il dissenso alle cure - di per sé legittimo - è valido ed efficace solo se è manifestato dopo che l'interessato si è formato una rappresentazione veritiera e attuale delle proprie condizioni di salute, avendo la consapevolezza dei rischi cui si espone con la sua scelta.

Avv. Stefano Meani