Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 267 del 2007

Ormai quasi quotidianamente vengono emesse sentenze sia dalla Suprema Corte di Cassazione che dalle Corti di merito che offrono interessanti spunti sul tema della responsabilità sanitaria, oggi più che mai al centro dell’attenzione della cronaca non solo giudiziaria.
La pronuncia che riteniamo opportuno segnalare in questa sede è stata depositata lo scorso ottobre dalla Corte di Cassazione ed ha ad oggetto una causa di risarcimento danni a seguito della rottura di una protesi mammaria[1].
La sentenza ci pare degna di nota poiché esprime una serie di principi di diritto che possono applicarsi analogicamente a tutte le ipotesi in cui il sanitario utilizzi protesi o altri prodotti analoghi che si rivelano poi essere difettosi, provocando danni anche molto gravi al paziente.
Occorre subito sottolineare che il legislatore comunitario ha disciplinato in modo compiuto la materia della responsabilità derivante da prodotti difettosi, con la Direttiva n. 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985, recepita in Italia dal D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224.
In sintesi, questa normativa si applica ai beni mobili che sono oggetto di una produzione industriale e quindi anche al materiale medico come le protesi.
Alla base della Direttiva si pone il principio della responsabilità oggettiva del produttore, ossia indipendente da colpa, in caso di danno causato da un difetto del suo prodotto.
Il danneggiato non deve quindi provare la colpa del produttore ma solo l'esistenza del danno, il carattere difettoso del prodotto, un legame di causa/effetto fra il danno subito e il difetto del prodotto.
In altri termini, nell'ambito della responsabilità assoluta prevista dalla Direttiva non è quindi necessario dimostrare la negligenza o l'errore del produttore così come dell'importatore.
La legge considera infatti “produttori” non solo chi ha materialmente creato il prodotto, ma anche: chiunque partecipi al processo di produzione; l'importatore del prodotto difettoso; qualsiasi persona che apponga al prodotto il proprio nome, la propria marca o qualsiasi altro segno distintivo; qualsiasi persona che fornisca un prodotto il cui produttore non può essere identificato.
La vittima dispone di un termine di tre anni per chiedere il risarcimento. Tale termine decorre dalla data in cui è risultata a conoscenza del danno, del difetto e dell'identità del produttore.
La responsabilità del produttore cessa entro un termine di dieci anni a decorrere dalla data in cui il prodotto è stato introdotto sul mercato.
La legge precisa che nessuna clausola contrattuale può autorizzare il produttore a limitare la propria responsabilità nei confronti della vittima.
Tornando all’esame del caso concreto, nella specie era avvenuto che una signora si era sottoposta ad un intervento di mastectomia radicale per neoplasia mammaria durante cui le era stata applicata una protesi mammaria fabbricata da una società straniera e distribuita in Italia da una società italiana.
Purtroppo, nel corso di una successiva visita di controllo era stato accertato che la protesi, costituita in da un involucro contenente soluzione salina, si era inspiegabilmente svuotata e la soluzione si era diffusa nei tessuti circostanti. Con la conseguenza che la signora aveva dovuto sottoporsi ad un altro intervento per la rimozione dell’involucro ed il drenaggio dei tessuti ed a successive altre operazioni di alta specializzazione e di corrispondente costo.
Lamentando gravi danni sia materiali che morali a seguito della rottura della protesi, la signora decideva quindi di agire in giudizio nei confronti della società produttrice straniera e nei confronti della società distributrice italiana, invocando a sostegno della richiesta di risarcimento proprio la normativa in tema di responsabilità da prodotto difettoso.
Si costituiva in giudizio la società italiana la quale negava qualsivoglia responsabilità sul presupposto che essa era stata semplice fornitrice della protesi che le era pervenuta dal fabbricante in confezione sterile e sigillata destinata all’apertura ed al controllo da parte del chirurgo in sede di applicazione, così che nulla a lei poteva essere imputato.
Si costituiva altresì la società straniera produttrice la quale evidenziava anzitutto che secondo il testo letterale della normativa in tema di prodotti difettosi il produttore è sì responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto, ma tale responsabilità è esclusa “… se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto”.
Sulla scorta di tale principio, la società evidenziava che prima di uscire dalla fabbrica ciascuna protesi viene sottoposta ad accurati controlli qualitativi e a sterilizzazione e, in ogni caso, le informazioni allegate prevedevano che il chirurgo addetto all’impianto avrebbe dovuto eseguire una serie ben precisa di test preventivi.
Con la conseguenza che se il chirurgo aveva impiantato la protesi significava che i test avevano dato risultati soddisfacenti e quindi non potevano ritenersi sussistenti difetti al momento della messa in circolazione della protesi.
Se viceversa – proseguiva la società - il giudizio implicito del chirurgo di assenza di difetti era stato determinato dalla non corretta esecuzione dei test nonostante le raccomandazioni di essa produttrice, di certo della cattiva riuscita dell’impianto la paziente non aveva titolo di dolersi nei confronti della produttrice.
A proprio difesa, quest’ultima aggiungeva che la protesi era stata messa in commercio corredata di dettagliate istruzioni che senza mezzi termini ammonivano il consumatore sulla possibilità di rischio del suo impiego, sui limiti di affidabilità, sulle controindicazioni, sulle situazioni in cui era addirittura sconsigliato l’impiego e, in particolare, sulla possibilità, espressamente prevista, di sgonfiamento legata ad una lunga serie di fattori possibili ed individuati, nonché ad una serie ulteriore di fattori in conoscibili.
Ritenendo quindi che l’eventuale responsabilità per i danni provocati dalla protesi andasse addebitata a chi l’aveva materialmente impiantata sebbene avesse dovuto riscontrare un’eventuale difetto preesistente, la società produttrice chiedeva inoltre che il chirurgo addetto all’impianto della protesi in questione e l’Ospedale presso cui lo stesso aveva operato fossero tenuti a garantirla in caso di accoglimento della domanda della pazienta.
In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda della paziente e condannava la sola società produttrice della protesi al risarcimento dei danni derivanti dal difetto del prodotto.
Tale sentenza veniva però riformata in sede di appello poiché i Giudici di secondo grado sostenevano che la protesi si era rotta a distanza di oltre due anni dall’impianto e ciò doveva far escludere – in mancanza di prova contraria - che la stessa presentasse un vizio “originario”, ossia presente al momento della messa in commercio.
La Corte di Appello riteneva infatti che nell’ipotesi di rottura verificatasi a distanza di molto tempo dalla messa in commercio, il regime della prova stabilito a favore del consumatore non poteva trovare applicazione, per cui spettava alla paziente provare la colpa del produttore nella fabbricazione del prodotto. Prova che nel caso concreto la paziente non aveva fornito per cui la sua domanda di risarcimento danni veniva rigettata.
La paziente ha impugnato tale sentenza avanti la Corte di Cassazione evidenziando anzitutto che il fatto che il produttore non garantisca la durata illimitata della protesi non può portare ad escludere la sua responsabilità in tutti quei casi in cui la protesi ha avuto una durata tanto limitata nel tempo da deludere le aspettative, anche le più pessimistiche, di un paziente che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico.
Al riguardo la paziente aveva prodotto in giudizio una copiosa documentazione relativa al contenzioso aperto negli U.S.A. dai consumatori portatori della protesi in questione da cui emergeva in modo chiaro l’esistenza del difetto lamentato.
I Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che la decisione della Corte di Appello che aveva addossato all’attrice, in base ad un’interpretazione letterale della normativa in tema di prodotti difettosi, l’onere di provare la colpa del produttore poiché il difetto non si era manifestato subito non era corretta ed era contraria allo spirito della legge.
Difatti, secondo i Giudici di legittimità, l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio della norma in esame (chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato) consiste nell’interpretare le singole disposizioni nel senso che il danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed al rapporto di causalità) solo che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative.
In altri termini, il danneggiato deve dimostrare che il prodotto (durante il predetto uso) si è dimostrato difettoso non offrendo la sicurezza che ci si poteva legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, ma non deve anche dimostrare che il difetto sussisteva fin dal momento in cui il produttore aveva messo in commercio il prodotto.
Secondo la Cassazione, una volta che il danneggiato ha dimostrato che il prodotto ha evidenziato il difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo è in connessione causale con detto difetto, è il produttore che ha l’onere di provare che il difetto riscontrato non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione.
Applicando tale principio al caso di specie, i Giudici hanno quindi chiarito che alla paziente spettava solo di provare che nel corso dell’uso (entro un congruo periodo di tempo dall’impianto) la protesi aveva manifestato il difetto (si era svuotata), che vi era stato un danno e che sussisteva il suddetto nesso eziologico.
Per liberarsi dalla responsabilità la società produttrice aveva invece l’onere di provare che era probabile che il difetto non esistesse ancora al momento in cui la protesi era stata messa in circolazione, dimostrando eventualmente che il difetto era dipeso da cause esterne quali un trauma.
I Giudici della Suprema Corte hanno poi voluto ricordare che la normativa in tema di prodotti difettosi prevede la nullità di qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità del produttore.
La Cassazione ha quindi rinviato la causa alla Corte di Appello perché riesaminasse tutte le prove assunte alla luce del principio di diritto appena esposto.
Come si può facilmente intuire, la sentenza costituisce un precedente importante che potrà avere notevoli ripercussioni pratiche sulla materia dei danni da prodotti sanitari difettosi. I Giudici hanno infatti spiegato in modo molto chiaro che spetta al produttore dimostrare che il difetto che ha causato un danno al consumatore/paziente è dipeso da cause esterne e successive alla messa in commercio del prodotto stesso, anche quando il difetto si sia manifestato molto tempo dopo tale diffusione sul mercato.
In assenza di tale prova il consumatore/paziente potrà ottenere con facilità un risarcimento del danno, essendogli sufficiente dimostrare il nesso causale tra il difetto del prodotto sanitario ed il danno patito.

Avv. Stefano Meani

[1] Cass. Civ., Sez III., 8 ottobre 2007, n. 20985.