da Leadership Medica n. 276-277 del 2009
Introduzione
Le strutture sanitarie ed in particolare quelle ospedaliere si sono sviluppate storicamente facendo riferimento alle esigenze del territorio sulle quali venivano insediate, con cambiamenti funzionali e strutturali che spesso non hanno tenuto conto degli aspetti della sicurezza, rendendole inadeguate rispetto alla tutela dei lavoratori e dei degenti.
Obiettivo di questa ricerca è quello di valutare quali siano i compiti dei dirigenti delle strutture sanitarie, nonché l’evoluzione della giurisprudenza sul tema delle connesse responsabilità.
Il diritto alla salute e la responsabilità dei datori di lavoro alla luce dei principi costituzionale e del sistema normativo vigente.
I principi costituzionali.
Il tema della responsabilità dei dirigenti delle strutture sanitarie rende necessaria un’analisi preliminare del quadro normativo vigente in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali a questo direttamente connesso, ma ancora prima delle norme e dei principi costituzionali da cui questa traggono ispirazione, principi che riguardano essenzialmente il diritto al lavoro, la tutela della salute e la libertà di iniziativa economica.
Infatti, per comprendere l’importanza ed il significato delle norme di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, occorre ricordare, innanzi tutto, alcune disposizioni costituzionali che si occupano proprio del lavoro.
L'art. 1 della Costituzione, nel dichiarare che “l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, attribuisce al lavoro una funzione che va oltre il concetto economico di mezzo per la produzione di beni o servizi, considerandolo, invece, quale strumento per la realizzazione della personalità dell’individuo all’interno della collettività in cui vive e, quindi, come valore essenziale per lo sviluppo e il progresso dell’intera società.
Il successivo art. 4 conferma l’importanza di tale assunto, affermando che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini, il diritto al lavoro…” e che "…ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società...”
Tutto ciò spiega, insieme alle considerazioni che saranno svolte nel prosieguo in tema di diritto alla salute e libertà di iniziativa economica, i motivi per i quali legislatore abbia introdotto in materia di lavoro una “tutela privilegiata”[1], che si articola in una serie di leggi speciali, di natura sia penale che amministrativa, adottate a decorrere dal 1955 attraverso le quali è stato realizzato un sistema di repressione e controllo anticipati per la tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Un altro importante principio costituzionale in materia è rappresentato dal riconoscimento della tutela della salute, da un lato come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività, dall'altro come limite espresso all'esercizio dell'iniziativa economica privata, come emerge con chiarezza rispettivamente dagli artt. 32 e 41 Cost.
La responsabilità civile del datore di lavoro: l’art. 2087 cod. civ.
Prima di esaminare la disciplina vigente in materia di sicurezza dei lavoratori e, per quel che riguarda la nostra ricerca, le connesse responsabilità dei dirigenti delle strutture sanitarie, occorre soffermarsi sull’art. 2087 del codice civile che fissa il principio fondamentale in materia imponendo all’imprenditore, e per estensione analogica, al datore di lavoro[2], di “…adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
Il tenore della norma è tale da far percepire la sua immediata precettività, essa stabilisce un preciso dovere a carico del datore di lavoro, al quale corrisponde un altrettanto chiaro diritto del lavoratore alla tutela della propria integrità.
Il datore di lavoro secondo la norma civilistica è tenuto ad adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente in materia, ma anche quelle ritenute comunque necessarie alla luce delle cognizioni della "migliore tecnologia" e del patrimonio di esperienza tipici di un determinato momento storico[3]. In tal modo, da un lato è possibile supplire alle lacune di una normativa antinfortunistica, che non può essere in grado di prevedere qualsiasi fattore di rischio. Dall'altro, si evita l'obsolescenza delle misure di sicurezza, prevedendone un aggiornamento automatico in conseguenza dell'innovazione tecnologica.
Sebbene la formulazione della disposizione sorprenda per la sua straordinaria attualità ed “elasticità”, che le permette di adattarsi (nonostante siano ormai trascorsi più di 60 anni dalla sua emanazione) ai continui mutamenti tecnologici, costringendo i datori di lavoro a munirsi degli strumenti più adeguati per la tutela della sicurezza dei lavoratori[4], sul piano della effettività non si può fare a meno di rilevare però che la disposizione abbia dimostrato una efficacia piuttosto limitata soprattutto sotto il profilo della prevenzione degli infortuni.
Ciò in gran parte dipende dalla sua natura civilistica, che impedisce, in caso di sua inosservanza, di applicare direttamente delle sanzioni penali.
La norma - come accennato – si è rivelata inefficace proprio sotto il profilo della tutela preventiva della salute del lavoratore, posto che la tutela giudiziale non opera in via preventiva, vale a dire al fine di ottenere la realizzazione delle misure necessarie alla sicurezza prima che l’evento dannoso si verifichi, quanto piuttosto a posteriori, con l’attivazione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore.
Ebbene nonostante ciò è stato osservato correttamente[5] che la norma in esame svolge tuttora una rilevante funzione nel settore della sicurezza, sotto un duplice profilo.
In primo luogo l'inosservanza dell’art. 2087 cod. civ. può essere valutata al fine di stabilire la sussistenza dell’elemento soggettivo della “colpa” nell’illecito penale commesso dal datore di lavoro, sotto il profilo della inosservanza di leggi, nell’ipotesi che l'infortunio o la malattia professionale sia da ricollegare a tale condotta omissiva, per cui sotto questo aspetto la disposizione svolge, seppure in modo indiretto una reale funzione preventiva[6].
Per altro verso, come è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, i precetti contenuti nella disposizione costituiscono importanti strumenti di interpretazione delle norme speciali emanate dal legislatore per disciplinare i diversi settori di attività, sia per quanto concerne l’identificazione dei destinatari, che per quanto attiene al contenuto del dovere di sicurezza.
Così congegnata, ovviamente, la disposizione funge da norma di chiusura, fonte di responsabilità civile, che rende il datore di lavoro principale destinatario dell’organizzazione della sicurezza quale “garante dell'integrità fisica dei prestatori di lavoro”, delineando un modello di comportamento dovuto dal medesimo[7].
L’art. 2087 cod. civ., è bene ricordarlo, impone all'imprenditore di “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Pertanto, da tale disposizione, che formula un principio di portata generale già presente in numerose disposizioni particolari, e cioè quello della sostanziale intrasferibilità del dovere generico di sicurezza gravante sull'imprenditore, si ricava che la sanzione civile del risarcimento del danno consegue in ogni caso al mancato apprestamento dei mezzi di prevenzione e protezione (comportamento contra jus) da parte del predetto che comunque vi era tenuto anche quando l'incarico sia stato affidato ad altri più esperti e competenti tramite delega.
Tale concetto è stato riaffermato dalla Corte di Cassazione, che ha osservato che “ai fini della prevenzione degli Infortuni sul lavoro gli imprenditori sono tenuti ad osservare non solo le norme specifiche dettate dalla legislazione antinfortunistica, ma anche le norme di ordinaria prudenza, diligenza e perizia, in relazione alla concreta pericolosità del lavoro ed ai dettami della tecnica ed esperienza comuni. Ciò in quanto la normativa speciale antinfortunistica costituisce applicazione del più ampio principio dettato, a tutela delle condizioni di lavoro, dall'articolo 2087 e non esaurisce quindi il dovere generale che, in attuazione di tale ultimo precetto, incombe sul datore di lavoro di adottare ogni opportuno e necessario accorgimento per garantire l'incolumità dei lavoratori..” (Cassazione, Sez. V, 30.6.1982, n. 6482).
Il datore di lavoro quindi è il destinatario privilegiato del dovere di sicurezza sancito dall’articolo 2087 c.c.; al quale corrispondono precisi oneri di organizzazione e di vigilanza del lavoro nel rispetto di tutte quelle disposizioni o misure che garantiscono la salubrità dei luoghi di lavoro e l'integrità del lavoratore.
Ne consegue che il datore di lavoro deve provvedere alla predisposizione delle misure di sicurezza e igiene del lavoro prima dell’inizio della attività lavorativa; tali misure non possono essere generiche, ma devono essere mirate al rischio (...secondo la particolarità del lavoro ), e tenere conto di tutti i dati di esperienza, personale o altrui, a livello nazionale e internazionale (...l'esperienza...).
A tale attività di prevenzione deve poi seguire un’altrettanto doverosa e non meno rilevante attività di vigilanza sullo svolgimento del lavoro e sull’osservanza delle norme antinfortunistiche.
Non vi è dubbio, infatti, come ha affermato la Suprema Corte che obbligo del datore di lavoro “…è anche e contemporaneamente quello di assicurare una costante vigilanza sull'esecuzione dei lavori, nel rispetto delle norme di sicurezza e delle disposizioni preventivamente, o eventualmente anche immediatamente impartite; obbligo di sicurezza configurato in capo al lavoratore, sì da sopperire alla sua minore esperienza e/o conoscenza in materia tecnica o anche solo al fine di evitare conseguenze pericolose di manovre disattente o imprudenti" [8].
Tuttavia, nuovamente va osservato come l'estensione di tale obbligo di vigilanza debba rimanere circoscritto entro i precisi limiti dettati dai generali criteri di "ragionevolezza" e di "esigibilità".
Al riguardo, va ricordato l’ammonimento della Corte Suprema che, alla luce di alcuni precedenti dai quali "sembra doversi desumere un obbligo assoluto del datore di lavoro di vigilare affinché siano impediti atti o manovre rischiose del dipendente ... (Cass. n. 4860 del 1986; n. 9422 del 1991 cit.; Cass. pen., Sez. IV, n. 5835 del 1991 cit.)" insegna che "non può pretendersi che il datore di lavoro si impegni in una vigilanza continua dell'esecuzione di ogni attività, che, in particolare, egli sia sempre e dovunque presente nei vari luoghi in cui il lavoro si svolge per la detta opera di vigilanza o che affianchi ad ogni lavoratore, che sia addetto ad una mansione richiedente la prestazione di una sola persona, un preposto, o che organizzi una moltiplicazione di dipendenti il cui compito sia quello di vigilarsi verticalmente a partire da esso datore di lavoro per giungere sino all'ultimo manovale"[9].
Quello che si può pretendere, invece, è "una condotta diligente rapportata in concreto al lavoro da svolgere e cioè alla ubicazione di questo, alla natura e complessità del medesimo, all'esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica di lavorazione"[10].
Sotto tale profilo merita ancora di essere ricordata un’altra importante pronuncia in cui la suprema Corte ha avuto modo di osservare che “in materia di sicurezza dell'ambiente di lavoro, l'obbligo di adottare misure preventive in applicazione del disposto dell'art. 2087 c.c. - grava sul datore di lavoro non soltanto in rapporto alle misure di carattere specifico, previste da norme particolari, ma anche a quelle di carattere generico ed implica altresì una doverosa attività di controllo costante, volta ad impedire comportamenti dei lavoratori tali da rendere inutili o insufficienti le apprestate cautele tecniche, senza che la suddetta responsabilità resti esclusa da concorrente colpa del lavoratore nella causazione dell'evento dannoso (cfr. Cassazione civile , sez. lav., 08 febbraio 1993 , n. 1523)”.
Logico corollario di quanto testè osservato è il dovere di aggiornamento scientifico, che pure è stato affermato dalla Corte di Cassazione in tutte le situazioni in cui si è trattato di valutare l’assenza di nozioni tecniche, anche nuove, da parte dell’imprenditore. Carenze che, una volta accertata la concreta possibilità di acquisizione dei nuovi ritrovati della scienza in materia di sicurezza, ha dato luogo alla individuazione di uno specifico titolo di colpa dell’imprenditore.
Così ancora sotto il profilo penale è stato considerato il mancato aggiornamento tecnico delle misure di sicurezza e igiene del lavoro laddove l’evoluzione tecnologica aveva messo a disposizione del datore di lavoro gli strumenti necessari per prevenire l'infortunio o la malattia professionale.
Alla luce di quanto fin qui considerato è possibile concordare con chi ha osservato che il limite del dovere di sicurezza, sotto il profilo della prevedibilità, coincide con i traguardi raggiunti dal progresso tecnologico, non essendo stato accolto nel nostro ordinamento il principio della compatibilità finanziaria delle misure di sicurezza con l'attività alla quale ineriscono. Anzi, è stato sempre ed espressamente affermato il contrario, e non poteva essere diversamente, atteso il chiaro dettato dell’articolo 41 Costituzione che, come si è visto, ha subordinato le esigenze della produzione a quelle della sicurezza.
Gli obblighi di prevenzione nella legislazione antecedente il decreto legislativo 626/1998.
Una prima individuazione degli obblighi di prevenzione si è avuta con alcuni d.P.R. della seconda metà degli anni ’50.
Notevole importanza riveste in tal senso il d.P.R. 12 maggio 1955, n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) che riguarda tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o equiparati, gestite da privati o da amministrazioni ed enti pubblici, con alcune specifiche esclusioni (elencate nell'art. 2).
Il decreto individua come destinatari delle norme di sicurezza, oltre al datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti, nell'ambito delle rispettive attribuzioni.
Ai fini della prevenzione, dirigenti e preposti possono essere considerati quali figure di collaboratori del datore di lavoro. Il decreto, però, prevede fra i destinatari passivi delle norme anche i lavoratori subordinati (art. 6), che sono propriamente controparti del datore di lavoro, non solo nel rapporto di lavoro subordinato, ma anche in quel rapporto accessorio che può definirsi di prevenzione, in quanto ha per oggetto la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali degli stessi lavoratori.
L'art. 3 del decreto definisce il lavoratore subordinato ai fini della legislazione di prevenzione come “colui che fuori del proprio domicilio presta il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo scopo di apprendere un mestiere, un'arte o una professione”.
Concludendo è utile osservare che i lavoratori subordinati assumono nella legislazione tuttora vigente una duplice veste: di beneficiari e di destinatari delle norme di prevenzione.
Dall'art. 1 del d.P.R. n. 547/55, è possibile desumere, infatti, che i lavoratori subordinati in quanto esposti ai rischi inerenti alle attività lavorative svolte, sono i “soggetti attivi” o “creditori” degli obblighi di prevenzione, vale a dire coloro la cui sicurezza e salute viene tutelata dalle norme in tema di sicurezza e, quindi, nel cui interesse questi obblighi sono stabiliti[11].
Ma al contempo alcune disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro gravano sugli stessi lavoratori, in modo tale che essi assumono la veste anche di “soggetti passivi” degli obblighi di prevenzione, con tutte ciò che può derivare in termini di responsabilità civile, penale e disciplinare.
Altro provvedimento normativo fondamentale emanato negli anni ’50 è il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, recante norme generali per l'igiene del lavoro, il quale ripete pressoché integralmente il sistema del d.P.R. n. 547/55 sia per quanto riguarda il campo di applicazione generale (comprendente tutte le attività alle quali sono addetti lavori subordinati o equiparati) sia per quanto concerne la definizione di lavoratore subordinato (art. 3), nonché quella dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti (art. 4), sia infine quanto alla indicazione degli obblighi di prevenzione generalmente incombenti sui lavoratori (art. 5).
Il sistema normativo sopra descritto è rimasto sostanzialmente inalterato anche dopo l'emanazione degli altri decreti del medesimo periodo, che hanno disciplinato la sicurezza del lavoro nelle attività produttive escluse dal campo di applicazione del d.P.R. n. 547/55 ed hanno regolamentato la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro in specifici settori, ciò fino alla emanazione del D.lgs 626/1994.
Il decreto legislativo 626/1994.
Un notevole passo in avanti in materia di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro si è avuto con il D.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che ha recepito nel nostro ordinamento, con notevole ritardo, la direttiva comunitaria n. 391 del 12 giugno 1989, che può essere considerata il provvedimento quadro dal quale sono poi scaturite altre sette direttive dedicate a singoli fattori di pericolosità o a materie specifiche[12].
Il D.lgs. n. 626/1994, attesa la sua completezza ed analiticità è generalmente considerato come il testo di riferimento della legislazione in materia di prevenzione prevenzionistica.
Esso è stato il primo testo normativo, dopo i decreti degli anni '50, che ha fornito una sufficiente specificità alla norma generale dell'art. 2087 c.c.-.
La direttiva comunitaria ed il decreto legislativo n. 626 di attuazione a livello nazionale si caratterizzano positivamente per aver configurato un sistema dettagliato di organi e di procedure per tutelare la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro.
Un primo aspetto significativo che connota il D.lgs. 626/1994 riguarda la configurazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico di uno “strumento di autoadattamento” della prevenzione e della protezione della salute del lavoro in relazione alla evoluzione storica della tecnologia e dei modi di produzione dei beni e dei servizi. Per cui è stato correttamente osservato che[13] il decreto n. 626 segna il passaggio da una concezione “statica” della sicurezza e dell'igiene del lavoro a una concezione “dinamica”, tendente ad aggiornare le misure e le cautele seguendo l'evoluzione tecnico-scientifica dei processi lavorativi.
Per questo motivo si può correttamente affermare che il D. lgs. n. 626/1994 prosegue il solco tracciato dall'art. 2087 c.c. e rappresenta un'articolazione più precisa e cogente dei principi che sottendono tale disposizione.
Una delle principali novità introdotte dal decreto n. 626, rispetto alla precedente legislazione, è quella di aver generalizzato l'obbligo di adeguare le misure di prevenzione alla massima sicurezza tecnicamente possibile, affermando, in tema di misure generali di tutela (cfr. art. 3), la necessità di “eliminare i rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e, ove ciò non è possibile, la loro riduzione al minimo”.
A questo punto occorre risolvere il problema connesso al livello di flessibilità del dovere di adeguamento tecnologico: in altri termini è necessario stabilire quali tra le misure rese possibili dallo sviluppo tecnico-scientifico il datore di lavoro debba adottare e, quindi, se egli sia obbligato a servirsi anche delle misure ancora sperimentali e/o economicamente ancora molto onerose[14].
Il decreto n. 626 non offre chiari ed immediati parametri di soluzione.
Pertanto la individuazione delle misure più adatte non può che avvenire tramite le procedure di specificazione e adattamento delle misure di prevenzione, che il decreto assegna agli organi di collaborazione del datore di lavoro (in particolare al servizio di prevenzione e protezione) a cui partecipano, almeno a titolo consultivo, anche i rappresentanti dei lavoratori subordinati.
La soluzione fornita dal D.lgs. non è, quindi, sostanziale, ma di natura procedurale, poiché rinvia alle indicazioni degli organi aziendali, che decideranno il necessario aggiornamento tecnico delle misure di sicurezza, coinvolgendo i lavoratori, e ciò in linea con l'impostazione dinamica e autoadattativa che caratterizza la normativa comunitaria.
Il secondo aspetto che caratterizza la normativa in materia di prevenzione è il passaggio da una logica (tendenzialmente) conflittuale ad una logica (tendenzialmente) collaborativa o partecipativa[15].
Il decreto n. 626 nell’ambito di questa logica collaborativa ha previsto a livello aziendale un rappresentante per la sicurezza, eletto o designato dai lavoratori, con compiti consultivi e propositivi, e a livello territoriale organismi paritetici fra le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, con funzioni formative e di risoluzione del contenzioso.
Il nuovo testo unico sulla sicurezza sul lavoro approvato con decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
Il 15 maggio 2008 è entrato in vigore il Decreto Legislativo 81/2008 recante il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, che dà attuazione alla delega conferita al Governo dalla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza del lavoro.
Si riportano di seguito le maggiori novità contenute nel provvedimento:
- l'ampliamento del campo di applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza, ora riferite a tutti i lavoratori che si inseriscano in un ambiente di lavoro, senza alcuna differenziazione di tipo formale (c.d. principio di effettività della tutela che implica la tutela di tutti coloro, a qualunque titolo, operano in azienda) e finanche ai lavoratori autonomi, con conseguente innalzamento dei livelli di tutela di tutti i prestatori di lavoro;
- il rafforzamento delle prerogative delle rappresentanze in azienda, in particolare di quelle dei rappresentanti dei lavoratori territoriali (destinati a operare, su base territoriale o di comparto, ove non vi siano rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in azienda), e la creazione di un rappresentante di sito produttivo, presente in realtà particolarmente complesse e pericolose (ad esempio, i porti);
- la rivisitazione e il coordinamento delle attività di vigilanza, in un'ottica di ottimizzazione delle risorse, eliminazione delle sovrapposizioni e miglioramento dell'efficienza degli interventi. Viene creato un sistema informativo, pubblico ma al quale partecipano le parti sociali, per la condivisione e la circolazione di notizie sugli infortuni, sulle ispezioni e sulle attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro, utile anche a indirizzare le azioni pubbliche;
- il finanziamento delle azioni promozionali private e pubbliche, con particolare riguardo alle piccole e medie imprese, tra le quali l'inserimento nei programmi scolastici e universitari della materia della salute e sicurezza sul lavoro;
- la revisione del sistema delle sanzioni. In base ai criteri indicati dalla legge delega 123/2007 è stata prevista la pena dell'arresto da sei a diciotto mesi per il datore di lavoro che non abbia effettuato la valutazione dei rischi cui possono essere esposti i lavoratori in aziende che svolgano attività con elevata pericolosità. Nei casi meno gravi di inadempienza, il decreto legislativo prevede, invece, che al datore di lavoro si applichi la sanzione dell'arresto alternativo all'ammenda o della sola ammenda, con un'attenta graduazione delle sanzioni in relazione alle singole violazioni. Per favorire l'adeguamento alle disposizioni indicate dal decreto legislativo, al datore di lavoro che si metta in regola non è applicata la sanzione penale ma una sanzione pecuniaria. Nella stessa logica, il datore di lavoro che cominci ad eliminare concretamente le conseguenze della violazione o che adempia, pur tardivamente, all'obbligo violato ottiene, nel primo caso, una riduzione della pena, nel secondo caso la sostituzione della pena con una sanzione pecuniaria che va da un minimo di 8.000 euro a un massimo di 24.000. Ovviamente tale possibilità è esclusa quando il datore di lavoro sia recidivo o si siano determinate, in conseguenza della mancata valutazione del rischio, infortuni sul lavoro con danni alla salute del lavoratore. Restano, naturalmente, inalterate le norme del codice penale - estranee all'oggetto della delega - per l'omicidio e le lesioni colpose (articolo 589 e 590) causate dal mancato rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro;
- l'eliminazione o la semplificazione degli obblighi formali, attraverso la riduzione del numero e del peso per le aziende degli adempimenti di tipo burocratico, in quanto non incidenti sulle condizioni di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro.
In proposito è opportuno ricordare che il 2 agosto 2008 è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la legge 2 agosto 2008, n. 129 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97, recante disposizioni urgenti in materia di monitoraggio e trasparenza dei meccanismi di allocazione della spesa pubblica, nonché in materia fiscale e di proroga di termini”, che modificando l'articolo 306, comma 2, del Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, sostituendo "decorsi novanta giorni dalla pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana" (29 luglio 2008) con "a decorrere dal 1º gennaio 2009”, prevede la proroga al 1° gennaio 2009 dell'adeguamento del documento di valutazione dei rischi alle nuove indicazioni contenute nel D.Lgs. 81/08.
Fino al 1° gennaio 2009 restano quindi in vigore le disposizioni sulla valutazione dei rischi contenute nella legislazione precedente ed in particolare dell’articolo 4 del D.Lgs. 626/94, il quale prevede “Il datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, valuta tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori …”[16]
I soggetti del procedimento di tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Alla luce delle premesse di ordine generale sopra tracciate, è utile individuare i protagonisti tipici del procedimento di tutela della salute del lavoro, quindi precisarne gli obblighi ed ,infine, delinearne la responsabilità penale.
Il lavoratore.
La prima figura che il decreto n. 626 definisce è quella del lavoratore.
Secondo la nozione fornita dalla lett. a) dell'art. 2, agli effetti del decreto, per lavoratore si intende ogni persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze altrui, con rapporto di lavoro subordinato, anche speciale.
Questa nozione coincide sostanzialmente con quella fornita dagli artt. 2 del decreto n. 547/55 e del decreto n. 303/56, salvo che per i lavoratori a domicilio, i quali sono espressamente esclusi dalla tutela stabilita in quei decreti, mentre - come abbiamo ora visto - sono inclusi limitatamente ad alcuni diritti nella tutela stabilita dal decreto n. 626.
Il datore di lavoro
Figura centrale nell’ambito del decreto sulla sicurezza è quella del datore di lavoro di cui il decreto n. 626, seguendo la direttiva comunitaria, fornisce una definizione espressa (art. 2, lett. b), valida anche per il settore della Pubblica Amministrazione.
E’ datore di lavoro “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità dell'impresa stessa ovvero dell'unità produttiva (...), in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa”.
Con tale definizione il legislatore ha chiaramente rinunciato ad individuare il datore di lavoro con criteri formali, legati ai poteri di rappresentanza dell’ente o alla carica formalmente rivestita all’interno dell’amministrazione.
Il criterio accolto e pertanto quello sostanziale dell’effettivo esercizio dei poteri di gestione, ossia al fine di soddisfare i fini istituzionali previsti dalla legge.
In tal senso il datore di lavoro non si identifica necessariamente con colui che è il titolare della legale rappresentanza dell’ente all’esterno (amministratore delegato, direttore generale…), posto che un altro dirigente potrebbe essere chiamato ad esercitare i relativi poteri di gestione.
Per quanto concerne i settori della pubblica amministrazione, l’esperienza dei primi anni successivi al decreto 626, evidenzia le notevoli difficoltà riscontrate per individuare con sicurezza la figura del datore di lavoro nell’ambito dei singoli settori della pubblica amministrazione.
Del resto lo stesso legislatore si è reso conto di tali difficoltà, legata non solo alla complessità organizzativa delle pubbliche amministrazioni, ma anche alla evanescenza delle competenze in materia di sicurezza e d’igiene del lavoro della stessa pubblica amministrazione. Quindi ha emanato l’articolo 30 delle disposizioni di attuazione contenute nel decreto legislativo 242/1996, con il quale ha imposto l’obbligo di trasparenza ai fini dell’identificazione del datore di lavoro disponendo, al comma 1 della norma citata, che “entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto gli organi di direzione politica o, comunque, di vertice delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 29/1993 (poi trasfuso nel D.lgs. 165/2001), procedono all’individuazione dei soggetti di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, del presente decreto tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività”.
Al riguardo, la norma nella seconda parte afferma testualmente: "nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, secondo comma, del D.lgs 29/1993, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale". La linea prescelta dal legislatore appare conforme alle indicazioni emergenti dal D.lgs 29/1993, che all'art. 15 (oggi art. 15 del D.lgs 165/2001) individua le figure dirigenziali con un potenziamento dei poteri attribuiti e una correlata assunzione di responsabilità.
È stato osservato correttamente, però, che mentre la figura del datore di lavoro per il settore privato risulta facilmente individuabile, in quanto la sussistenza della pienezza dei poteri di gestione di tale soggetto può risultare da atti formali o dalla normativa interna, per la Pubblica Amministrazione appare difficilmente concentrabile una tale ampiezza di poteri in soggetti diversi dai dirigenti generali o dai dirigenti[17].
Per tale motivo la figura del datore di lavoro nell'ambito pubblicistico viene individuata sulla base delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza, che sono prevalentemente ispirate al criterio dell'effettività dei poteri e delle funzioni esercitate "in concreto”.
Alla luce della definizione sopra descritta nelle strutture sanitarie ospedaliere la figura del datore di lavoro non può che coincidere con quella del Direttore Generale dell’Azienda.
Secondo la definizione vigente, quindi, il principale soggetto passivo degli obblighi di sicurezza sui luoghi di lavoro è colui che ha “la effettiva responsabilità gestionale dell'impresa o dell'unità produttiva, siccome dotato dei relativi poteri di decisione e di spesa”, sia egli o meno il datore di lavoro in senso civilistico, vale a dire il soggetto formalmente individuato nel rapporto di lavoro con i dipendenti.
In tal modo viene ad affermarsi implicitamente in materia una distinzione fra datore di lavoro formale (titolare del rapporto civilistico) e datore di lavoro sostanziale (soggetto passivo degli obblighi di prevenzione).
In altri termini, ai fini della tutela della sicurezza e dell'igiene del lavoro, il datore di lavoro non coincide sempre con il datore di lavoro in senso civilistico, ma, in linea con il tradizionale principio di effettività, è colui che, al di là del dato formale, è effettivo titolare della gestione dell’impresa, dell’unità produttiva per il settore privato, ed il dirigente effettivo titolare dei poteri di gestione nei singoli settori della Pubblica Amministrazione per quanto concerne il settore pubblico.
Il datore di lavoro ha soprattutto il compito:
- a) di elaborare, in collaborazione col responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nonché col medico quando sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria, e previa consultazione del rappresentante per la sicurezza, un documento aziendale che comprenda la valutazione dei rischi, la individuazione delle misure di tutela e la programmazione delle misure opportune per migliorare nel tempo lo standard di prevenzione e protettivo. Questo documento è una innovazione assolutamente qualificante del sistema della sicurezza:
- b) di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori;
- c) di tenere un registro degli infortuni, nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un'assenza dal lavoro di almeno un giorno;
- d) di custodire presso l'azienda o l'unità produttiva la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, e di consegnarne copia al lavoratore quando questi ne fa richiesta e comunque al momento della risoluzione del rapporto di lavoro;
- e) di organizzare il servizio di prevenzione e protezione, interno o esterno, designandone il responsabile e gli addetti;
- f) di nominare il medico competente nei casi previsti dalla legge.
I dirigenti ed i preposti
Altri soggetti dell'obbligo di sicurezza sono i dirigenti ed i preposti.
Nella nozione di dirigente - non contenuta, in via generale, nel D.L.vo 626/94 - possono senz'altro ricomprendersi, nell'ambito del lavoro pubblico, le figure dirigenziali di cui all'art. 15 del decreto 29/1993 (oggi art. 15 del D.lgs 165/2001), ovvero i dirigenti generali ed i dirigenti.
Il dirigente, sulla base delle mansioni previste dalla legge, può essere definito come colui che si distingue per una spiccata professionalità specifica, idonea a sostituire l'imprenditore (o in termini più generali il datore di lavoro) per assumerne le funzioni relativamente ad un settore o una unità produttiva, e che, di conseguenza, ha il compito di collaborare con il datore di lavoro per la realizzazione delle misure di sicurezza, nei limiti della propria competenza e delle attribuzioni ricevute.
Il preposto è invece il dipendente che, in virtù di un diretto ed immediato contatto con l'ambiente di lavoro e le persone che vi prestano la loro opera, esercita compiti di sorveglianza e coordinamento del lavoro, e di controllo quindi del concreto rispetto delle misure di sicurezza e igiene del lavoro da parte dei lavoratori, di segnalazione di guasti, manomissioni di dispositivi di sicurezza o altre situazioni di pericolo espressamente indicate dalla legge.
Se dunque nel settore privato le figure "classiche" di preposto sono individuate nei carpentieri, capi-officina, capi-reparto, capi-squadra, nelle amministrazioni pubbliche il pensiero corre immediatamente alle figure del capo servizio, capo-ufficio, ecc.
Ai fini della concreta individuazione è importante sia il dato formale - e dunque le funzioni desunte dalla qualifica e dal profilo professionale - sia il dato sostanziale - cioè le mansioni in concreto esercitate in base alla ripartizione interna delle competenze.
Tali definizioni, tuttavia, non hanno valore assoluto, ma relativo alla misura di sicurezza o di igiene del lavoro considerata, alla luce della organizzazione aziendale.
In altri termini, la qualifica di dirigente o preposto non costituisce un dato formale permanente, ma è la risultante dell’esame concreto della mansione svolta dal singolo individuo nel quadro organizzativo dell’azienda[18].
In linea di massima, le mansioni di dirigente saranno sovente attribuite a persone dello staff, mentre quelle di preposto coincidono in genere con i quadri; peraltro, ma non può escludersi che sulla base di una particolare organizzazione del lavoro in relazione a specifiche misure, i compiti di iniziativa siano affidati a persone che svolgono funzioni di livello subalterno, e che, viceversa, funzioni di preposto siano attribuite a persone che, sotto altri profili, svolgano funzioni di rilievo nell’organizzazione aziendale, perché ciò che conta è l’effettiva attribuzione delle mansioni.
In conclusione può, quindi, affermarsi che datori di lavoro sono coloro che hanno l’effettiva responsabilità gestionale, in quanto dotati dei relativi poteri decisionali e finanziari. I dirigenti sono coloro che dirigono le attività produttive, sotto il profilo tecnico e amministrativo, senza detenere poteri decisionali e finanziari riguardo alle strategie gestionali.
I preposti, infine, sono coloro che sovrintendono a determinate attività, ossia coloro che svolgono funzioni di diretto controllo sulla esecuzione delle prestazioni lavorative.
Anche con la nuova normativa, pertanto, la configurazione dei soggetti obbligati alla prevenzione e la delimitazione delle relative responsabilità sono correlate alle funzioni concretamente esercitate, piuttosto che alle qualifiche formali, secondo il principio di effettività tradizionalmente elaborato da dottrina e giurisprudenza.
Il servizio di prevenzione e protezione.
Costituisce una figura innovativa del procedimento di tutela della salute sui luoghi di lavoro, esso è definitivo dal D. lgs 626/1994 alla lett. c) del comma 1 dell'art. 2, come quell'insieme di persone, sistemi e mezzi - esterni o interni all'azienda - finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali nell'azienda.
Il decreto in esame obbliga il datore di lavoro a organizzare all'interno dell'azienda o della unità produttiva un servizio di prevenzione e protezione, oppure a incaricare allo stesso fine persone o servizi esterni all'azienda (art. 8).
Il datore di lavoro, previa consultazione del rappresentante della sicurezza, provvede a designare tra i suoi dipendenti un responsabile del servizio di protezione e prevenzione, che sia in possesso di attitudini e capacità adeguate, nonché altri addetti che abbiano le capacità necessarie e dispongano di mezzi e tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati. A garanzia della loro indipendenza, questi dipendenti non possono subire alcun pregiudizio a causa dell'attività svolta nell'espletamento del loro incarico (per esempio trasferimenti punitivi, sanzioni disciplinari, ecc.). Il datore di lavoro può avvalersi anche di persone esterne all'azienda professionalmente qualificate al fine di integrare il servizio interno.
Qualora all'interno della struttura non vi siano idonee figure professionali, il datore di lavoro (tranne che per alcuni tipi di azienda con lavorazioni particolarmente pericolose) può ricorrere a servizi esterni, previa consultazione del rappresentante della sicurezza: in questo caso, quindi, non per integrare, ma per sostituire il servizio interno. Ad ogni modo, deve essere sempre designato un responsabile, con attitudini e capacità adeguate (art. 8).
I compiti del servizio di prevenzione e protezione sono elencati nell'art. 9 e possono essere raggruppati in tre tipi: 1) valutazione dei rischi, 2) compiti di individuazione delle misure di sicurezza, 3) compiti di informazione e formazione in materia di sicurezza dei lavoratori.
Il rappresentante dei lavoratori.
È un’altra figura nuova introdotta dal D. lgs. 626/1994, sebbene già l'art. 9 dello statuto dei lavoratori attribuisse ai dipendenti il diritto di controllare e promuovere, mediante loro rappresentanze, la tutela della salute e della integrità fisica nei luoghi di lavoro.
Il merito del decreto è quello di aver reso obbligatorio un istituto che era soltanto facoltativo, specificando le funzioni del rappresentante per la sicurezza.
La lett. f) dell'art. 2 definisce il rappresentante per la sicurezza come la persona (o le persone) eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della sicurezza e della salute durante il lavoro. Non sono prescritti sistemi formali per la elezione o la designazione; sicché deve ritenersi sufficiente, ma anche necessaria, la garanzia sostanziale di una libera scelta da parte dei lavoratori.
Il rappresentante per la sicurezza svolge le funzioni di consulenza e di proposta, individuate nell'art. 19.
Anch'egli non può subire pregiudizio a causa dello svolgimento della sua attività e ha la stessa tutela dei rappresentanti sindacali.
Nelle aziende o nelle unità produttive che occupano sino a quindici dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto tra i lavoratori interni, ma nelle aziende che occupano sino a quindici dipendenti può essere eletto o designato per più aziende nell'ambito territoriale o del comparto produttivo. Nelle aziende o unità produttive che occupano più di quindici dipendenti, il rappresentante è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle r.s.a. esistenti.
Il medico competente.
La figura del medico competente non costituisce una vera innovazione, ma piuttosto l’ampliamento di una figura già esistente nella legislazione precedente.
Egli ha il compito di esercitare la sorveglianza sanitaria sui rischi nei luoghi di lavoro nei casi determinati dalla legge, compiendo gli accertamenti preventivi e quelli periodici sulla salute dei lavoratori e sulla loro idoneità a esercitare la specifica mansione cui sono destinatari (art. 16). Le sue attribuzioni specifiche sono elencate nell'art. 17 comma 1: di particolare rilievo il compito di collaborare alla predisposizione delle misure di tutela della salute e della integrità psicofisica dei lavoratori; l'obbligo di istituire e aggiornare una cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore; l'obbligo di effettuare le visite mediche richieste dai lavoratori quando siano correlate a rischi professionali.
Lo stesso art. 17 comma 5, definisce anche i requisiti soggettivi del medico competente: egli può essere un dipendente di una struttura esterna convenzionata, un dipendente dell'azienda, fornito della necessaria professionalità, o infine un libero professionista. È quindi abbandonata la preferenza tendenziale per i dipendenti del Servizio sanitario nazionale suggerita dal d.lg. 15 agosto 1991, n. 277 [art. 3 comma 1 lett. c)].
Il ruolo del lavoratore nel sistema della prevenzione.
La materia della responsabilità penale conseguente alla sicurezza nei luoghi di lavoro ha subito negli ultimi anni modifiche rilevanti che alcuni[19] hanno definito addirittura come rivoluzionarie.
È stato osservato in particolare che il d.lgs. n. 626/1994 ha mutato la posizione giuridica del lavoratore che, da mero creditore di sicurezza, ha assunto un ruolo attivo nel sistema della prevenzione, tanto da divenire il destinatario di precisi obblighi, definiti dall'art. 5 del decreto in oggetto.
Invero, già la normativa degli anni '50 aveva considerato il ruolo attivo che il lavoratore può esercitare nella prevenzione antinfortunistica, individuando precisi "doveri dei lavoratori" il cui rispetto era assicurato dalla previsione, in caso di violazione, di precise sanzioni penali[20].
Con le norme entrate in vigore negli anni '90 tale ruolo è stato ancor più esplicitato e rafforzato, tanto che alcuni autori considerano ormai i lavoratori tra i c.d. “debitori di sicurezza” [21].
Il nuovo ruolo del lavoratore è dimostrato da diversi elementi testuali: in primo luogo, l'art. 5 d.lgs. n. 626/1994, dedicato agli "Obblighi dei lavoratori" che al primo comma espressamente dispone che "ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro" con ciò stabilendo un preciso ruolo di tutela dei lavoratori.
Il che ha indotto alcuni studiosi della materia ad affermare l'esistenza in capo al lavoratore di una vera "posizione di garanzia avente ad oggetto la tutela dell'incolumità dei propri colleghi”[22], da cui potrebbe conseguire addirittura la responsabilità del lavoratore per infortuni occorsi a terzi "non solo in caso di fatti commissivi, ma anche per l'ipotesi di fattispecie omissive improprie, ossia per aver cagionato danno a terzi in conseguenza di una mancata azione doverosa" ex art. 40 comma 2 c.p.-.
L’art. 5 citato, diversamente dalle norme degli anni '50, non si limita ad elencare per le condotte doverose o vietate, ma introduce un principio generale di cui il comma secondo costituisce una mera specificazione (il secondo comma inizia infatti nel affermare “in particolare i lavoratori...”.
Peraltro, al termine del lungo elenco di obblighi espressamente rivolti ai lavoratori la lettera h) prevede che "contribuiscono, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi imposti dall'autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro". Si tratta di una disposizione che evidenzia il ruolo partecipativo riconosciuto dal decreto legislativo ai lavoratori, ad integrazione di quanto già previsto per il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti dal comma 4-bis art. 1 del D.lgs. n. 626/1994.
Si tratta di un passaggio fondamentale che, in una prospettiva più ampia, conferma quel passaggio venutosi a realizzare da un approccio tecnicistico proprio della normativa degli anni '50 ad una prospettiva dinamica delle problematiche inerenti la sicurezza, che si basa sull'organizzazione di un vero e proprio sistema di prevenzione di tipo gestionale che prevede il coinvolgimento di tutti i protagonisti dei settori della produzione del lavoro in genere, compresi gli stessi lavoratori[23].
Tuttavia, l’adempimento degli obblighi gravanti sul lavoratore risulta condizionato dal rispetto da parte dei c.d. obbligati primari della sicurezza, tra i quali rientra in primo luogo il datore di lavoro, dei doveri indicati in modo dallo stesso art. 5 comma 1 d.lgs. n. 626/1994, sui quali s è già osservato in precedenza.
Perché dunque l'obbligo di tutela che grava sul lavoratore diventi effettivo, è necessario che in precedenza il datore di lavoro abbia fornito strumenti adeguati di lavoro ed una informazione e formazione adeguate in materia di sicurezza[24]. Solo in tal caso sarà possibile esigere dal lavoratore una condotta conforme a quanto disposto dal secondo comma dell'art. 5 d.lgs. n. 626/1994, con conseguente applicazione, in caso contrario, delle previste sanzioni penali di cui all’art. 93 del D.lgs. n. 626/1994.
In proposito la Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. IV, 7 novembre 2002 n. 37248) ha evidenziato che, diversamente da quanto accadeva con la previgente disciplina, dettata dagli artt. 437, 451 c.p. e 2087 c.c., "il generico credito di sicurezza vantato dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, o preposto o delegato, è stato concretato come è noto in credito d'informazione, di formazione e di una serie di misure dettagliate fissate, e consistenti in specifiche previsioni di disposizione e di controllo e d'erogazione di mezzi, anche questi espressamente e minuziosamente indicati".
Da quanto sopra consegue, come osservato efficacemente da importante dottrina[25], che alla luce del nuovo sistema della prevenzione le conseguenze dell'art. 5 d.lgs. n. 626/1994 devono essere rapportate all'introduzione nell'ambito della sicurezza sul lavoro del c.d. "principio di affidamento" vale a dire di quella "aspettativa sociale" secondo la quale "ogni consociato... può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta viene in questione"[26].
Nella materia della sicurezza, l'affidamento del datore di lavoro nella condotta diligente del lavoratore è quindi condizionata al preventivo adempimento da parte del primo di precisi obblighi, quali in particolare: la dotazione di mezzi e strutture oggettivamente sicuri, la previa istruzione e formazione nelle forme e nei modi previsti dalla normativa di settore, nonché il tradizionale obbligo di vigilare sull'osservanza delle norme e disposizioni di sicurezza da parte dei singoli lavoratori.
La responsabilità penale in materia di sicurezza del lavoro.
Tracciati gli obblighi gravanti sui soggetti protagonisti della sicurezza dei luoghi di lavoro è possibile a questo punto esaminare l’argomento della responsabilità penale che incombe sugli stessi obbligati.
La maggior parte degli obblighi e delle responsabilità, come si è già osservato, incombe sul datore di lavoro, il quale ha una responsabilità penale esclusiva per la violazione di obblighi che non può delegare: al riguardo è previsto l'arresto da tre a sei mesi o l'ammenda da euro 1.549 a euro 4.131 (art. 89, comma 1, del D.lgs. 626/1994).
Egli è poi soggetto ad una responsabilità penale alternativa o concorrente con quella del dirigente, per la violazione di obblighi che incombono o al datore di lavoro o al dirigente stesso, in relazione alle effettive funzioni da essi esercitate nell'àmbito dell'azienda: a seconda dei casi la sanzione è quella dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da euro 1.549 a euro 4.131, ovvero quella dell'arresto da due a quattro mesi o dell'ammenda da euro 516 a euro 2.582 (art. 89, comma 2, del medesimo decreto).
Per obblighi di minore importanza la responsabilità alternativa o concorrente di datore di lavoro e dirigente ha contenuto solo amministrativo, e comporta il pagamento di una sanzione pecuniaria da euro 516 a euro 3.098 (art. 89, comma 3, del medesimo decreto).
Anche i dirigenti sono soggetti ad una responsabilità simmetrica a quella del datore di lavoro per la violazione degli obblighi loro incombenti sulla base delle funzioni svolte e per la violazione degli obblighi a loro trasferiti sulla base di una delega preventiva e rispondente alle condizioni richieste.
Quanto ai preposti, essi rispondono con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda (variamente graduata) per la violazione di obblighi su loro gravanti a titolo originario o derivato (art. 90).
Anche i soggetti esterni ai luoghi di lavoro, come progettisti, fabbricanti, fornitori e installatori, incorrono in responsabilità penale (art. 91).
Analoga responsabilità è stabilita per il medico competente (art. 92). Mentre nessuna sanzione penale o amministrativa è prevista per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione o per il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
La rilevanza della delega di funzioni nell’ambito della responsabilità penale.
Può dirsi che il criterio generale cui si ispira la disciplina vigente e la giurisprudenza in materia è quella di considerare legittima ogni delega che tenda a ripartire in modo razionale il complesso delle mansioni nelle organizzazioni complesse e pluripersonali, delineando così un sistema coerente di responsabilità professionali interne e per conseguenza di responsabilità penali esterne; e per converso di delegittimare le deleghe che tendono ad uno scarico di responsabilità verso i soggetti deboli e professionalmente inadeguati dell'organizzazione aziendale.
Pertanto deve essere innanzitutto verificata la legittimità della delega, al di là degli specifici precetti normativi.
Un datore di lavoro, per esempio, non può trasferire a un preposto, che ha per definizione un ruolo di sorveglianza, anche il compito di adottare le necessarie misure protezionistiche e preventive: a meno che il preposto non abbia la capacità professionale e i poteri decisionali e finanziari che sono indispensabili per il compito delegatogli (ma in tal caso più che un preposto egli sarebbe di fatto un dirigente). Per verificare la legittimità della delega, in breve, bisogna riferirsi ai criteri della professionalità del delegato e della sua effettiva autonomia decisionale e finanziaria.
In proposito è stato correttamente osservato[27] che nel negare l'esistenza di una valida delega o di una articolata ripartizione funzionale (magari per la difficoltà di individuare secondo il principio di effettività il reale responsabile della violazione), occorre verificare che non si attribuisca al datore di lavoro una sorta di responsabilità oggettiva o responsabilità “di posizione”, che sarebbe in contrasto col principio di personalità della responsabilità penale di cui all'art. 27 Cost., ormai interpretato come principio che condiziona la responsabilità penale non solo all'esistenza di un fatto-reato e al rapporto causale con la condotta dell'imputato, ma anche alla colpevolezza di quest'ultimo (cfr. Corte cost. n. 364 e 1085/88).
Alla luce dei richiamati principi la responsabilità dell'organo di vertice non può essere esclusa laddove si tratti di adempimenti imposti ad esso in via esclusiva e quindi non delegabili, come si verifica per alcuni adempimenti in materia di sicurezza dei lavoratori, di cui è responsabile la persona fisica che ricopre la carica "pro tempore".
Negli altri casi la "delega di funzioni" è ammessa, purché nel rispetto dei seguenti canoni:
1) la delega deve essere disposta sulla base di precise norme interne o disposizioni statutarie; deve avere contenuto specifico e puntuale; deve rivestire, secondo la giurisprudenza forma scritta ed essere adeguatamente pubblicizzata;
2) la delega può esonerare il delegante a condizione che a) il delegante stesso non continui ad ingerirsi nell'esercizio delle funzioni trasferite; b) il delegato sia persona tecnicamente e professionalmente idonea; c) il delegato sia dotato dei necessari poteri di autonomia economica e decisionale; d) il delegante continui ad esercitare la funzione di vigilanza e controllo (obbligo variabile, evidentemente, a seconda delle dimensioni e dell'organizzazione dell'ente).
La Corte di Cassazione, inoltre, ha precisato che la condotta tenuta dagli imputati deve essere valutata alla luce del generale dovere gravante sul datore di lavoro, sui dirigenti e preposti di vigilare nei reparti che trova origine oltre che nella norma generale di cui all'art. 2087 c.c., in espresse previsioni normative (l'art. 4 comma 1 lettera c) d.P.R. n. 547/1955, art. 4 comma 1 lettera d) d.P.R. n. 303/1956 e art. 4 comma 5, lettera f) d.lgs. n. 626/1994).
Infatti, nonostante l'ottemperanza all'obbligo informativo e formativo, permangono a carico dei soggetti gerarchicamente superiori i tradizionali obblighi di vigilanza sull'effettiva osservanza delle norme di sicurezza da parte dei singoli lavoratori, tanto che, in assenza di tale controllo, non possa ritenersi che la condotta negligente dei lavoratori sia di per sé idonea ad esimere la responsabilità dei primi.
Non vi è, infatti, dubbio, come ha ribadito la Suprema Corte in un’altra pronuncia, "che, ancor prima, obbligo del datore di lavoro o suo sostituto rappresentante è anche e contemporaneamente quello di assicurare una costante vigilanza sull'esecuzione dei lavori, nel rispetto delle norme di sicurezza e delle disposizioni preventivamente, o eventualmente anche immediatamente impartite; obbligo di sicurezza configurato in capo al lavoratore, sì da sopperire alla sua minore esperienza e/o conoscenza in materia tecnica o anche solo al fine di evitare conseguenze pericolose di manovre disattente o imprudenti" (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 37248; Cass. pen., Sez. IV, n. 4586 del 9 aprile 1999).
Tuttavia, nuovamente va osservato come l'estensione di tale obbligo di vigilanza debba necessariamente essere ricondotto entro precisi confini, alla luce del generale criterio di "ragionevolezza" e di "esigibilità".
Al riguardo, è utile richiamare ricordato l’insegnamento della medesima Corte di Cassazione secondo cui "non può pretendersi che il datore di lavoro si impegni in una vigilanza continua dell'esecuzione di ogni attività, che, in particolare, egli sia sempre e dovunque presente nei vari luoghi in cui il lavoro si svolge per la detta opera di vigilanza o che affianchi ad ogni lavoratore, che sia addetto ad una mansione richiedente la prestazione di una sola persona, un preposto, o che organizzi una moltiplicazione di dipendenti il cui compito sia quello di vigilarsi verticalmente a partire da esso datore di lavoro per giungere sino all'ultimo manovale" (cfr. Cass. civ., Sez. lav., n. 6282 del 10 luglio 1996).
Ciò che si può pretendere, invece, è "una condotta diligente rapportata in concreto al lavoro da svolgere e cioè alla ubicazione di questo, alla natura e complessità del medesimo, all'esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica di lavorazione" (cfr. Cass. civ., Sez. lav., 12 gennaio 2002 n. 326).
In particolare: la responsabilità penale degli organi di vertice delle Aziende ospedaliere.
Occorre premettere che i principi generali in tema di responsabilità penale valgono sia che si tratti di strutture pubbliche che private.
In proposito la giurisprudenza ritiene principale destinatario dei precetti penali il Direttore Generale, fatta salva la ammissibilità della delega secondo ripartizioni istituzionali dei compiti (sui quali si è già osservato in tema di delega di funzioni) ai responsabili dei singoli servizi.
Pertanto, è stato osservato [28]che qualora il Direttore Generale nomini (ex art. 3 del Decreto Legislativo 502/1992) il Direttore Sanitario, deputato a dirigere i "servizi sanitari ai fini organizzativi ed igienico - sanitari", sarà considerato responsabile delle violazioni, ad esempio in materia di reflui ospedalieri (secondo la Corte di cassazione quali che siano le dimensioni del nosocomio e le disponibilità dell'organico, il Direttore Sanitario è responsabile dello scrupoloso controllo di tutto l'iter di raccolta, sterilizzazione, sistemazione nei contenitori, consegna fino all'allontanamento dall'area di competenza ad opera delle ditte incaricate dello smaltimento); ciò non esclude la concorrente responsabilità del Presidente ora Direttore Generale perché a lui compete il controllo su tutta l'organizzazione amministrativa e gestionale.
Per le contravvenzioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la responsabilità penale - come accennato in precedenza - viene in genere individuata sul soggetto titolare dei poteri di gestione (finanziaria, tecnica, amministrativa: quindi i poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali); non potendo ricadere sui soggetti cui pure in concreto siano stati affidati compiti rilevanti in materie suscettibili di rilevanza penale, ma che siano sprovvisti di autonomi poteri di spesa.
Nel caso di ospedali non costituiti in azienda ospedaliera, essi conservano la natura di presidi della U.S.L. e, pertanto, si farà capo al dirigente medico del presidio.
È importante a questo punto individuare quali siano i limiti della responsabilità penale, che in genere vengono individuati nel difetto di colpevolezza dei soggetti coinvolti.
Sotto tale aspetto è stata esclusa la responsabilità nelle ipotesi di mancanza assoluta di risorse in bilancio: la giurisprudenza ritiene configurabile, in questa ipotesi, un caso di "forza maggiore" che esclude la responsabilità. In caso di delega di funzioni, in capo al dirigente residua un obbligo di controllo: adempiuto diligentemente questo, l'eventuale violazione penale non sarà imputabile per difetto di colpa.
In tema di responsabilità penale di amministratori delle UU.SS.LL. la Cassazione Penale ha osservato che "in tema di contravvenzioni la cui materialità è costituita da una condotta omissiva, qualora destinatario del precetto penalmente sanzionato sia lo Stato o altro ente pubblico o un corpo amministrativo dotato di autonomia gestionale (U.S.L.) non si può prescindere dalla valutazione di dati obiettivi quali la complessità strutturale e l'articolazione burocratica della organizzazione cui il soggetto è posto al vertice, i canali informativi e i mezzi operativi dei quali egli dispone, i tempi e le procedure occorrenti per la loro operatività, pertanto l'imputazione o colpa del Presidente di una U.S.L., della disfunzione temporaneamente venutasi a produrre nella struttura dell'organo amministrativo è ravvisabile solo se egli abbia avuto conoscenza della irregolarità verificatasi nell'organizzazione e nell'andamento di un servizio rientrante nelle attribuzioni di altri uffici (sottostanti a quello presidenziale con proprie sfere di competenza attiva, propulsiva ed informativa) e si sia dimostrato acquiescente omettendo di compiere quanto fosse in suo potere per far cessare l'irregolarità stessa, fattispecie nella quale è esclusa la responsabilità di un Presidente di U.S.L. per aver omesso di assicurare la sorveglianza fisica e medica del personale professionalmente esposto a radiazioni”.
In tema di responsabilità penale rilievo non indifferente vengono poi ad assumere le carenze strutturali ed organizzative delle strutture sanitarie.
La situazione è stata notevolmente modificata con l’emanazione del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, che ha trasformato le U.S.L. in Azienda dotata di personalità giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile e tecnica, individuando quale responsabile della Azienda, dotato di notevole autonomia, il Direttore Generale, coadiuvato dal Direttore Sanitario e dal Direttore Amministrativo.
La individuazione di queste tre figure ha consentito alla giurisprudenza di attribuire responsabilità penali nelle ipotesi in cui, in presenza di danni ai pazienti, siano state rintracciate (indipendentemente dalla correttezza comportamentale dei medici e degli infermieri) carenze strutturali od organizzative chiaramente attribuibili ai suddetti professionisti.
Può infatti verificarsi l’ipotesi di una responsabilità rispetto ad eventi di danno ugualmente subiti dal paziente ricoverato nella struttura sanitaria, che siano però causalmente collegati non a difetto nell'esercizio dell'arte medica, ma a carenze della struttura sanitaria, si pensi alla mancanza di attrezzature tecniche, al loro difettoso funzionamento, alla mancanza di personale medico o paramedico…-.
In proposito non vi è dubbio che gli Enti ai quali è demandata istituzionalmente l'organizzazione del servizio sanitario siano tenuti a fornire attrezzature, supporti e materiale alle unità operative, secondo quanto previsto dall'ordinamento giuridico.
Pertanto, è stato condivisibilmente rilevato che gli amministratori pubblici preposti ai suddetti Enti debbano essere ritenuti responsabili, ai diversi livelli, se a causa dell'omissione dell'intervento cui erano tenuti, o in conseguenza di errori o di cattiva gestione tecnica o amministrativa, si determina una carenza delle strutture, e se in conseguenza di tale carenza si verificano eventi dannosi per la vita o la salute del paziente[29].
Direttori sanitari, dirigenti, politici e funzionari regionali e gli stessi organi centrali, di conseguenza potranno essere imputati di reati colposi contro la persona ove si accerti che non hanno soddisfatto con gli interventi necessari le esigenze della sanità pubblica nel settore assegnato alla loro rispettiva competenza funzionale, sempre che ovviamente si siano trovati nella condizione di poter agire.
Trattandosi di responsabilità colposa, i responsabili delle strutture sono esentati da colpa qualora, non potendo risolvere direttamente il problema, abbiano segnalato formalmente la necessità di provvedere ad opere di manutenzione ordinaria o straordinaria delle attrezzature, o alla fornitura dei farmaci e delle attrezzature necessari al servizio.
In tal caso eventuali ritardi od omissioni possono portare semmai al riconoscimento di una responsabilità dell'amministratore, ed a ritenere penalmente irrilevante il comportamento del medico, o comunque del subordinato, che si è trovato di fatto nella impossibilità di intervenire.
La responsabilità degli amministratori in rapporto alla erogazione di prestazioni sanitarie del resto opera anche in altri ambiti, come quello contabile.
Così è stata affermata la responsabilità del Presidente della Amministrazione Provinciale e dell'Assessore alla Sicurezza Sociale per il danno subito da un ente ospedaliero a causa dell'acquisto di apparecchiature sanitarie effettuato in carenza delle condizioni necessarie per la loro utilizzazione; nella specie "mancata predisposizione dei locali, mancato reperimento della équipe medica da adibire all'uso delle attrezzature acquistate e mancata preventiva valutazione della indispensabilità ed utilità dell'opera in relazione alla esiguità del numero dei ricoverati, al carattere di stabilità dell'utenza ed alla possibilità di potersi avvalere di altra struttura ospedaliera" (Corte dei Conti, Sez. I, 10 ottobre 1990, Foro It., Rep. 1991)[30].
La individuazione della responsabilità penale degli amministratori non può prescindere dalle inevitabili connessioni con i superiori livelli di indirizzo politico – amministrativo.
È noto come esistano tre livelli di intervento e controllo: quello nazionale, sempre più sfumato, quello regionale, destinato ad assumere un ruolo sempre più centrale, e quello aziendale.
In proposito nell’illustrare la complessità del rapporto tra Regioni ed Aziende è stato osservato che “le Regioni sono maggiormente responsabilizzate in ordine al perseguimento degli obiettivi assistenziali ed al rapporto tra livelli assistenziali e risorse assorbite mentre le Aziende sanitarie sono responsabilizzate in ordine al processo di acquisizione di servizi sanitari e al processo di produzione interno[31]".
Rilevante interesse e significato riveste, altresì, la sentenza 20 settembre-3 ottobre 1995 n. 10093 della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, secondo cui "Va ascritta alla penale responsabilità del direttore amministrativo della struttura ospedaliera, a titolo di colpa, la morte della paziente in seguito a intervento chirurgico, nel caso che questi non predisponga una organizzazione almeno sufficiente e tale comunque da rendere possibile almeno quel minimo d'assistenza notturna post-operatoria (ferme le più specifiche competenze del direttore sanitario) che tutti gli interventi chirurgici eseguiti in anestesia impongono (fattispecie in cui la Suprema Corte ha qualificato un caso di morte in clinica realizzatasi a seguito di decorso post-operatorio problematico in ambiente privo di assistenza e qualificata vigilanza, in assenza di ogni struttura di intervento immediato)".
Alla luce di quanto sopra, è possibile concludere che solo in rari casi si potrà accertare la responsabilità penale degli amministratori centrali, mentre per quanto riguarda gli amministratori dell’Azienda occorrerà valutare caso per caso la loro autonomia decisionale, spesso limitata agli aspetti più correnti.
Ed infatti vi è chi ha efficacemente osservato come siano molti i casi di “evaporazione della responsabilità penale”, quando le scelte tecniche od organizzative sconfinano in quelle discrezionali e politiche[32].
Gli organi tecnici del servizio possono (o meglio devono) segnalare l'esigenza di potenziamento dello stesso, ad esempio con l'acquisto di attrezzature idonee a garantire l'effettuazione di terapie maggiormente efficaci, o con l'acquisto di un maggior numero di apparecchiature, il cui uso generalizzato potrebbe ridurre il rischio terapeutico.
Questa segnalazione è obbligatoria per i soggetti del servizio sanitario, e deriva naturalmente da quella posizione di garanzia che essi rivestono, come responsabilità penale omissiva ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p.-.
La questione più importante è però se sussista, a fronte di tale segnalazione, un obbligo di attivarsi da parte dell'amministratore, per fronteggiare positivamente le richieste avanzate dai reparti o dai laboratori; e se anche l'inadempimento di un tale ipotetico obbligo possa configurare una responsabilità colposa omissiva, per violazione di una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.-.
La risposta non può che essere positiva nei casi in cui esistano ancora dei fondi che non sono stati utilizzati nei relativi capitoli di bilancio.
Mentre un analogo obbligo non può sussistere laddove la decisione di spesa rientri nell'ambito della sfera discrezionale tipica delle scelte politiche, in base alle quali l'organo politico, assumendosene le connesse responsabilità (di natura politica), decide una diversa ragionevole destinazione delle risorse.
Le osservazioni testé svolte in relazione alle scelte politiche e finanziarie hanno importanti ricadute sul piano della responsabilità penale, ben potendo impedire l’emanazione di una sentenza di condanna ogni qualvolta si accerti che l'evento lesivo subito dal paziente derivi da carenze strutturali riconducibili a scelte discrezionali di tipo politico-finanziario. Tale forma di esenzione da responsabilità rientra nelle ipotesi di “forza maggiore” disciplinate dall’art. 45 c.p.-.
In relazione al complesso tema della stretta connessione tra i diversi livelli di responsabilità politica, amministrativa e gestionale, è utile osservare che l’art. 10 comma 2 del D.lgs. n. 502 del 1992 prevede che le Regioni, nell'esercizio dei poteri di vigilanza di cui all'art. 8, comma 4, citato, e avvalendosi dei propri servizi ispettivi, verificano il rispetto delle disposizioni in materia di requisiti minimi e classificazione delle strutture erogatrici, con particolare riguardo alla introduzione ed utilizzazione di sistemi di sorveglianza e di strumenti e metodologie per la verifica di qualità dei servizi e delle prestazioni, e che il Ministro della sanità interviene nell'esercizio del potere di alta vigilanza.
Tale disposizione ha un diretto con la problematica della responsabilità penale.
Infatti, nell'ambito delle strutture sanitarie possono verificarsi complesse combinazioni di responsabilità.
Si è osservato in proposito che l'ambito della responsabilità penale per la determinazione di eventi di morte o di malattia può essere assai esteso e coinvolgere diversi soggetti[33].
Tale ambito può coinvolgere non soltanto i medici che operarono direttamente sul paziente ed ebbero eventualmente ad incorrere in profili di colpa professionale (colpa medica in senso stretto), ma anche coloro che non sono intervenuti quando vi erano tenuti, o coloro ai quali spettano compiti di organizzazione del servizio sanitario a livello medico od amministrativo, che hanno omesso di predisporre un'adeguata organizzazione, o di fornire supporti tecnici o di personale sufficienti.
In questi casi si verifica, quindi, un concorso della colpa medica in senso stretto con la colpa per carenze della struttura sanitaria.
In un simile contesto, si è osservato, possono porsi delicate questioni di corresponsabilità del medico che ha sbagliato l'intervento o la terapia, o ha omesso di adottare un presidio doveroso, con quella del primario che non abbia garantito una corretta organizzazione del lavoro in un suo reparto con riferimento al personale o alle strutture; o con quella del direttore sanitario che non abbia messo a disposizione strumenti tecnici ed organizzativi adeguati alle necessità[34].
Può esservi responsabilità concorrente del personale paramedico per negligenza o imperizia o dei responsabili amministrativi del servizio sanitario (USSL, Regione, Governo) per eventuali omissioni nella distribuzione delle risorse o della predisposizione di strumenti tecnici e di personale, o nella organizzazione dei servizi.
Per comprendere e risolvere situazioni del genere occorre fare riferimento ai principi concetti che regolano la responsabilità penale, che non possono affrontati in questa sede se non in via del tutto sommaria.
Al riguardo è sufficiente osservare che situazioni come quelle descritte per sommi capi in precedenza possono essere inquadrate in linea generale, a seconda delle vicende, in due categorie giuridiche tra loro prossime, vale a dire nella figura della “cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.)” o in quella del “concorso di fatti colposi indipendenti”.
La cooperazione nel delitto colposo è un istituto del tutto diverso da quello del concorso di persone nel reato.
La figura della cooperazione nel delitto colposo si caratterizza per l’assenza della volontarietà dell’evento finale (il risultato – morte o lesioni - non è voluto da chi agisce, si pensi all’ipotesi del decesso del paziente determinata dall'imperizia del chirurgo unitamente alla condotta omissiva colposa del dirigente sanitario che non metta a disposizione del personale medico un apparecchio idoneo a rimediare a situazioni di emergenza.
In tale ipotesi i due soggetti che versano in colpa (il chirurgo e il dirigente) possono essere ciascuno a conoscenza della condotta colposa altrui, ma certamente non vogliono l'evento cagionato dalle loro condotte (cioè la morte del paziente); perché altrimenti vi sarebbe un reato doloso.
Diversa è invece l’ipotesi del “concorso di fatti colposi indipendenti”, che si verifica quando più soggetti contribuiscono a determinare un evento senza avere la consapevolezza dell'azione altrui.
In questo caso, secondo la giurisprudenza, in mancanza di connessione psicologica tra i vari agenti, si ritiene che sussista una pluralità di reati con distinte responsabilità.
È stato giustamente osservato che la differenza tra cooperazione colposa e concorso di fatti colposi indipendenti ha un effetto sotto il profilo procedurale in tema di querela: l'esistenza di un'ipotesi di cooperazione nel delitto colposo comporta infatti l'estensione della querela a tutti coloro che hanno cooperato nel reato ai sensi dell'articolo 123 c.p.; mentre ciò non vale nell'ipotesi di concorso di cause colpose indipendenti[35].
Tornando più specificamente all’attività sanitaria, l’accertamento della responsabilità penale non potrà prescindere da un verifica dei singoli casi concreti, in modo da verificare se sia individuabile, ad esempio, l’assenza di presidi terapeutici (farmaci, garze, strumenti operatori, lastre radiografiche, etc.) ovvero l’esistenza di carenze organizzative (mancato apprestamento di turni di reperibilità, omissione della periodica sterilizzazione delle sale operatorie, etc.), valutando anche la eventuale correità dei Direttori Sanitario ed Amministrativo (nel caso di compiti delegabili la responsabilità dei collaboratori potrà escludere quella del Direttore Generale).
Nel caso in cui si dovesse configurare la mancanza di mezzi terapeutici più complessi ovvero per la carenza di personale a causa della mancata autorizzazione all’assunzione dovranno essere valutate anche le responsabilità degli amministratori regionali e centrali.
I tre diversi livelli di responsabilità dei Dirigenti di strutture sanitarie.
Sulla base delle previsioni normative le incombenze ed i livelli di responsabilità dei responsabili delle strutture sanitarie possono essere articolate ripartendole in tre distinte categorie.
Un primo profilo di responsabilità può essere ricollegato all'omesso o inadeguato espletamento dei compiti di controllo, vigilanza e sorveglianza previsti dalle diverse norme (culpa in vigilando).
In proposito vengono in rilievo, in primo luogo, le competenze del direttore sanitario in tema di controllo circa la regolarità e l'efficienza dell'assistenza agli infermi e di vigilanza sul comportamento del personale addetto ai servizi sanitari.
Eventuali omissioni nelle predette attività di controllo e vigilanza possono comportare una responsabilità del direttore sanitario in ordine ad eventuali danni che derivino al paziente a causa dell'inadeguata assistenza infermieristica, per quanto concerne ciascuno dei molteplici profili nei quali la stessa si articola. Sono astrattamente ipotizzabili, al riguardo, i reati di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) e di omicidio colposo (art. 589 c.p.).
La colpa del direttore sanitario può, infatti, consistere nel negligente o imprudente espletamento dei compiti di controllo e vigilanza e rilevare quindi come colpa specifica per l'inosservanza delle disposizioni normative che tali compiti delineano ovvero di eventuali, specifiche disposizioni convenzionalmente attuate nell'ambito della clinica.
Al direttore sanitario compete il controllo, in via generale, sull'efficienza delle apparecchiature tecniche presenti in clinica, vale a dire sul regolare funzionamento e sulla manutenzione delle stesse.
Tale attribuzione può originare tutta una serie di responsabilità che afferiscono a materie specifiche, disciplinate da apposite normative per danni al paziente derivati dall'inidoneo funzionamento di apparecchiature e macchinari in genere (devono ancora richiamarsi le previsioni del codice penale in tema di lesioni ed omicidio colposo); è bene, peraltro, puntualizzare che la responsabilità sembra certamente da escludere in caso di guasti improvvisi ed eccezionali, non prevedibili in base alla comune esperienza ed all'ordinaria diligenza e prudenza.
In particolare, al direttore sanitario compete la vigilanza sul funzionamento dell'emoteca. Tale limitata attribuzione sembra circoscrivere la responsabilità del direttore sanitario, con riguardo alla materia della raccolta, conservazione e distribuzione del sangue, al caso di somministrazione di sangue scaduto o non ben conservato, e quindi al reato di cui agli artt. 443-452 c.p. (somministrazione colposa di medicinali guasti) ovvero ai già menzionati reati di cui agli artt. 589-590 c.p.-.
Compete al direttore sanitario vigilare sulla scorta dei medicinali e dei prodotti terapeutici, nonché sulle provviste alimentari. Il mancato o insufficiente esercizio di tale vigilanza può determinare responsabilità di ordine diverso, sotto il profilo dell'eventuale somministrazione di medicinali guasti o scaduti (artt. 443-452 c.p.p.; oltre che, eventualmente, artt. 589-590 c.p., in caso di danni derivati al paziente a seguito della somministrazione di medicali imperfetti, ovvero della mancata somministrazione dei necessari medicinali). Nel caso in cui vi sia, all'interno della casa di cura, uno specifico servizio farmaceutico, dotato di apposito responsabile, è necessario accertare, di volta in volta, se l'istituzione del servizio abbia concretamente esautorato il direttore sanitario delle ordinarie competenze, ovvero se, come è verosimile, questi abbia comunque mantenuto compiti di supervisore e sorveglianza, ovvero ancora si sia concretamente ingerito nella gestione del servizio.
Un altro filone di responsabilità è ricollegabile all'omesso o inadeguato espletamento di attività specifiche che rientrano nei compiti propri dei responsabili, diverse da quelle più propriamente attinenti all'esercizio della vigilanza (culpa in omittendo).
In proposito va la responsabilità connessa alla organizzazione dei turni di servizio della guardia medica per cui eventuali accadimenti dannosi per il paziente che siano riconducibili all'inadeguata organizzazione di tale servizio possono determinare una responsabilità ancora una volta ai reati di omicidio e lesioni personali colpose.
Altro aspetto rilevante riguarda l'adozione delle necessarie misure in caso di manifestazione di malattie infettive. Eventuali omissioni in questo senso, dalle quali sia derivato un contagio per altri pazienti, possono ovviamente determinare anche responsabilità di natura penale, con riferimento ai reati appena citati, se non addirittura con riguardo all'ipotesi di determinazione di un'epidemia, mediante diffusione colposa di germi patogeni (artt. 438-452 c.p.).
Qualora, dunque, il direttore sanitario, come è verosimile, gestisca o sovrintenda alle attività intese alla prevenzione del pericolo di diffusione di infezioni, potrà essere chiamato a rispondere anche penalmente di eventuali omissioni. Il direttore sanitario è, infatti, certamente qualificabile come “dirigente”, nel senso specifico che il termine assume in seno alla normativa in tema di sicurezza sul lavoro, in quanto risponde ai canoni in proposito elaborati dalla giurisprudenza, caratterizzandosi per la preposizione ad un intero settore di attività, con autonomia e discrezionalità decisionale che lo rendono una sorta di alter ego dell'imprenditore.
Un terzo filone di responsabilità è ravvisabile con riferimento all'illecito espletamento di condotte che rientrano tra le attribuzioni del direttore sanitario (culpa in agendo).
In primo luogo assumono rilievo le competenze relative al rilascio di copia delle cartelle cliniche e della certificazione sanitaria inerente i pazienti ricoverati. Rientra, infatti, tra i compiti del direttore sanitario la conservazione della cartella clinica e della certificazione sanitaria in genere per cui egli può essere tenuto a rispondere del reato di cui all'art. 622 c.p. allorquando rilasci una copia della cartella clinica, ovvero di altra documentazione sanitaria, a soggetti diversi dagli aventi diritto, e cioè, in generale, l'interessato, i suoi eredi, eventuali delegati, l'autorità giudiziaria e gli enti pubblici abilitati.
Dott. Vincenzo Blanda
Bibliografia
[1] Così osserva Luigi Fiasconaro, il diritto alla salute nell’ambiente di lavoro, Roma, Buffetti editore, 1989, precisando che tale atteggiamento è spesso presente nella "legislazione ordinaria che, ad esempio, ha sempre escluso dalla previsione delle amnistie gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; che ha reso perseguibili di ufficio solo le lesioni gravi e gravissime commesse con violazione delle norme antinfortunistiche e le malattie professionali, quando invece lesioni di pari gravità e qualità venivano rese perseguibili a querela di parte, come è accaduto per quelle connesse a violazioni della disciplina stradale; che ha assoggettato alle più onerose condizioni previste dell’articolo 162 bis c.p. l'oblazione delle contravvenzioni antinfortunistiche”; che per altro verso non sono state depenalizzate quando, la legge n. 689/81 ha provveduto alla riduzione al rango di sanzioni amministrative le contravvenzioni punite con la sola ammenda.
[2] Ai fini della prevenzione, il concetto di “datore di lavoro” deriva da una generalizzazione di quello civilistico di imprenditore, che però astrae dall'elemento della professionalità richiesto per questa categoria dall'art. 2082 c.c.-. In conseguenza delle precisazioni sopra svolte, destinatario degli obblighi di prevenzione è il datore di lavoro (pubblico e privato) che ha alle proprie dipendenze lavoratori subordinati.
[3] V. Cass. 8 febbraio 1993, n.1523, in Not. giur. lav., 1993, 352; Cass. 5 aprile 1993, n. 4083, in Giust. civ. Mass., 1993, 619; Cass. 27 settembre 1994, n.10164, in Dir. prat. lav., 1994, 42, 2909; Cass. 29 marzo 1995, n. 3740, in Mass. giur. lav., 1995, 359.
[4] sul piano astratto la formulazione dell'art. 2087 c.c. assicura l'obiettivo della "massima sicurezza tecnologicamente possibile".
[5] Luigi Fiasconaro, op. cit.
[6] Così D. Pulitanò “ problemi di coordinamento con la normativa preesistente e di diritto transitorio” in Atti del Convegno «Novità in materia di sicurezza del lavoro: il d.lg. 16/9/94 di recepimento delle direttive comunitarie», tenutosi a Milano il 28 e 29 novembre 1994.
[7] in proposito, Carlo M. Grillo, in “Sicurezza ed igiene del lavoro: nuovo apparato sanzionatorio e primi problemi” in Cass. pen. 1995, 10, 2720, evidenzia che l’art. 2087 cod. civ., delineerebbe un modello di comportamento dovuto dal datore di lavoro (ovvero un modello di buon imprenditore), tale per cui i doveri di diligenza, gravanti su questo, non si esaurirebbero in quelli tipizzati da specifiche disposizioni, essendo egli tenuto a fornire una garanzia «a tutto campo», il cui adempimento richiede l'attuazione di ogni misura «necessaria» all'effettiva salvaguardia del bene tutelato (salute e integrità personale dei lavoratori), quantunque non stabilita da alcuna legge, regolamento o prescrizione dell'Autorità.
[8] Cass. pen., Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 37248, in ISL, 4, 2003, 209. Si vedano altresì Cass. pen., Sez. IV, n. 4586 del 9 aprile 1999, in ISL, 11, 1999 651, Cass. pen., Sez. IV, n. 6187 del 18 maggio 1999, in ISL, 11, 1999, 653 e da ultimo Cass. pen., Sez. IV, 3 giugno 1995 n. 6468 cit., ove la Suprema Corte ha addirittura riconosciuto in capo al datore di lavoro o direttore della sicurezza del lavoro l'obbligo di avere "la cultura, la forma mentis del garante di un bene prezioso qual è certamente l'integrità del lavoratore; ed è da questa doverosa cultura che deve scaturire il dovere di educare il lavoratore a far uso degli strumenti di protezione e il distinto dovere di controllare assiduamente, a costo di essere pedanti che il lavoratore abbia appreso la lezione e abbia imparato ad seguirla".
[9] Cass. civ., Sez. lav., n. 6282 del 10 luglio 1996 in Mass. giur. lav., 1997, 145 con nota di Lorusso, Ancora sulla responsabilità dell'imprenditore per infortunio sul lavoro. Conforme ad una interpretazione più ragionevole dell'obbligo di vigilanza Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 1987, in Giur. it., 1988, 420 ss.
[10] Così osserva Roberta Cavalleri in “Obblighi del datore di lavoro e autotutela del lavoratore in materia antinfortunistica” in Resp. civ. e prev. 2005, 3, 728.
[11] così osserva tra gli altri, P. Onorato in “i soggetti passivi dell'obbligo di sicurezza nei luoghi di lavoro: recenti previsioni normative e possibili generalizzazioni”, in Cass. pen. 1999, 1, 355.
[12] P. Onorato in op. cit. fornisce una rassegna efficace delle direttive in esame:”La direttiva quadro è del 12 giugno 1989, n. 89/391, e concerne l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Quelle particolari, emanate in base all'art. 16 par. 1 della direttiva-quadro, sono la direttiva 30 novembre 1989, n. 89/654, relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute per i luoghi di lavoro; la direttiva 30 novembre 1989, n. 89/655, relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori durante il lavoro; la direttiva 30 novembre 1989, n. 89/656, relativa alle prescrizioni minime in materia di sicurezza e salute per l'uso da parte dei lavoratori di attrezzature di protezione individuale durante il lavoro; la direttiva 29 maggio 1990, n. 90/269, relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute concernenti la movimentazione manuale di carichi che comporta tra l'altro rischi dorso-lombari per i lavoratori; la direttiva 29 maggio 1990, n. 90/270, relativa alle prescrizioni minime in materia di sicurezza e di salute per le attività lavorative svolte su attrezzature munite di videoterminali; la direttiva 28 giugno 1990, n. 90/394, sulla protezione contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti cancerogeni durante il lavoro; la direttiva 26 novembre 1990, n. 90/679, relativa alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro.
[13] P. Onorato, in op. cit.
[14] Le norme prima in vigore temperavano la rigidità del principio, posto che l'art. 41 del d.lg. n. 277/91 ricorreva al limite della “concreta attuabilità” delle misure; mentre l'art. 24 del d.P.R. n. 303/56 si limitava ad imporre le misure semplicemente “consigliate” dalla tecnica, consentendo in tal modo una valutazione sotto il profilo delle possibilità pratico-economiche.
[15] Tale ispirazione collaborativa costituisce diretta attuazione del principio individuato in uno dei “considerando” della direttiva comunitaria n. 89/391, secondo cui “…per garantire un miglior livello di protezione, è necessario che i lavoratori e/o i loro rappresentanti siano informati circa i rischi per la sicurezza e la salute e circa le misure occorrenti per ridurre o sopprimere questi rischi; che è inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata, conformemente alle legislazioni e/o alle prassi nazionali, all'adozione delle necessarie misure di protezione”.
[16] Ricordiamo che l’art. 306. (Disposizioni finali) del Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, prevede che: "le disposizioni di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), e 28, nonché le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie, previste dal presente decreto, diventano efficaci decorsi novanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale; fino a tale data continuano a trovare applicazione le disposizioni previgenti.".
L’articolo 17 (Obblighi del datore di lavoro non delegabili) prevede che "Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività:
- a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall'articolo 28;
- b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.".
L’Articolo 28 è invece specificatamente dedicato alla valutazione dei rischi.
[17] A. Bonfini in “La sicurezza del lavoro nella Pubblica Amministrazione”, in rivista G. di F., n. 2, 1999, pag. 205.
[18] Così osserva Luigi Fiasconaro in op. cit.
[19] Roberta Cavalleri, “obblighi del datore di lavoro e autotutela del lavoratore in materia antinfortunistica” in Resp. civ. e prev. 2005, 3, 728 ed ancora GALLO, “Le figure della prevenzione: le nuove responsabilità del lavoratore”, in Ambiente e Sicurezza, 12, 54
[20] L'art. 6 d.P.R. n. 547/1955 (concernente Norme per la prevenzione degli infortuni) in particolare prevedeva: "I lavoratori devono: a) osservare, oltre le norme del presente decreto, le misure disposte dal datore di lavoro ai fini della sicurezza individuale e collettiva; b) usare con cura i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione predisposti o forniti dal datore di lavoro; c) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o ai preposti le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di sicurezza e di protezione, nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui venissero a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza e nell'ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre dette deficienze o pericoli; d) non rimuovere o modificare i dispositivi e gli altri mezzi di sicurezza e di protezione senza averne ottenuta l'autorizzazione; e) non compiere, di propria iniziativa, operazioni o manovre che non siano di loro competenza e che possano compromettere la sicurezza propria o di altre persone". L'art. 5 d.P.R. 303/1956 (recante Norme generali per l'igiene del lavoro), seppur rubricato "Obblighi dei lavoratori", analogamente disponeva che "I lavoratori devono: a) osservare, oltre le norme del presente decreto, le misure disposte dal datore di lavoro ai fini dell'igiene; b) usare con cura i dispositivi tecnico-sanitari e gli altri mezzi di protezione predisposti o forniti dal a di lavoro; c) segnalare al datore di lavoro, al dirigente o ai preposti le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di protezione suddetti; d) non rimuovere o modificare detti dispositivi e mezzi di protezione, senza averne ottenuta l'autorizzazione". Secondo alcuni autori tali norme devono considerarsi tacitamente abrogate dall’art. 5 del d.lgs. n. 626/1994.
[21] Sciortino, L'autotutela nella sicurezza sul lavoro, in Dir. prat. lav., 32, 2003, 2144 ss. e Roberta Cavalleri in op. cit.-.
[22] Prati, Disciplina antinfortunistica: responsabilità del lavoratore in ISL, 10, 1997, 562.
[23] Cfr. Roberta Cavalleri, in op. cit.
[24] I diritti fondamentali riconosciuti espressamente al lavoratore dal d.lgs. n. 626/1994 sono quelli dell'informazione e formazione nelle sue molteplici forme (addestramento, istruzioni, ecc...). In proposito l'art. 21 prevede l'obbligo del datore di lavoro di provvedere affinché i lavoratori ricevano un'adeguata informazione su: i rischi per la sicurezza e la salute connessi all'attività dell'impresa in generale; le misure e le attività di protezione e prevenzione adottate; i rischi specifici cui è esposto in relazione all'attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia; i pericoli connessi all'uso delle sostanze e dei preparati pericolosi sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalla normativa vigente e dalle norme di buona tecnica; le procedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio, l'evacuazione dei lavoratori; il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente; i nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di prevenzione incendi e pronto soccorso; l'art. 22 al comma 1 dispone: "Il datore di lavoro [...] assicura che ciascun lavoratore, ..., riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni". Mentre non va sottovalutato che il legislatore prevede poi nei titoli successivi l’obbligo del datore di lavoro (dirigenti e preposti) di provvedere ad un'adeguata informazione e formazione (si vedano per es.: artt. 37, 38 in merito alle attrezzature di lavoro; art. 43 commi 4 e 5 inerenti l'uso dei dispositivi di protezione individuali; art. 56 per i videoterminalisti, ecc.).
[25] Sciortino, L'autotutela nella sicurezza sul lavoro, in Dir. prat. lav., 32, 2003, 2144 ss., 2147; Giovagnoli, Il concorso colposo del lavoratore infortunato tra principio di affidamento e interruzione del nesso causale, in Mass. giur. lav., 2000, 990 ss..
[26] Cfr. Fiandaca - Musco, Diritto penale - Parte generale, Bologna, 1995, 499.
[27] P. Onorato in op. cit.-.
[28] Cosimo Lorè e Paolo Martini, Sulla responsabilità penale degli amministratori di strutture sanitarie in Riv. it. medicina legale 1998, 3, 403
[29] Domenico Potetti, Individuazione del soggetto penalmente responsabile all'interno delle strutture complesse, con particolare considerazione per le strutture sanitarie, in Cass. pen. 2004;
[30] Sempre in tema di responsabilità contabile è utile menzionare la decisione della Corte dei Conti, Sez. giur. Della Basilicata, 2 dicembre 1997, n. 256 la quale ha stabilito che “Il Primario, quale dirigente del reparto, diviene responsabile della custodia dei farmaci presi in carico sin dal momento della consegna, e ciò sia titolo di agente contabile secondario (con conseguente possibilità di responsabilità contabile), sia comunque quale figura di vertice dell'anzidetta articolazione amministrativa (con conseguente possibilità di responsabilità amministrativa); ne consegue che, in caso di sottrazione di costosi medicinali non idoneamente custoditi in reparto, va affermata la responsabilità del primario ad esso preposto a titolo di responsabilità contabile, in cui rimane comunque assorbita la concorrente prospettata responsabilità amministrativa”.
[31] Greco M., Boni M., Lineamenti del sistema sanitario, in Guida all'esercizio professionale per i medici chirurghi e gli odontoiatri, Edizioni Medico-Scientifiche, Torino, 1994.
[32] Domenico Potetti, op. cit.-.
[33] Domenico Potetti, in op. cit.-.
[34] In proposito è utile menzionale la sentenza Cassazione penale, sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47145, secondo la quale “il Dirigente medico ospedaliero è titolare di una posizione di garanzia a tutela della salute dei pazienti affidati alla struttura, perché i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 229 del 1999 di modifica dell'ordinamento interno dei servizi ospedalieri hanno attenuato la forza del vincolo gerarchico con i medici che con lui collaborano, ma non hanno eliminato il potere - dovere in capo al dirigente medico in posizione apicale di dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e di verificare l'attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura, ed infine il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti. (La Corte, con specifico riferimento alla disciplina del d.lg. n. 502 del 1992 posto che i fatti si riferivano al 1995, ha statuito che l'omesso esercizio di siffatte competenze causa il coinvolgimento del dirigente medico nella responsabilità per il fatto omicidiario, conseguente all'omissione colposa del trattamento terapeutico, commesso dai medici collaboratori).
[35] Domenico Potetti, in op. cit.-.