Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 273 del 2009

Meeting con tre esperti dell'Ospedale maggiore Policlinico di Milano:

il Prof. Giorgio Lambertenghi Deliliers (Responsabile del Centro trapianti di Midollo), il Dottor Francesco Bertolini (Centro trasfusionale ed Immunologia dei Trapianti) ed il Dottor Davide Soligo (ematologo presso il Centro Trapianti del Midollo)

Le neoplasie sono ancor oggi, in tutto il mondo, una delle principali cause di morte. Tra di esse la leucemia, i linfomi e altre patologie di natura ematologica rivestono particolare interesse sia per l'elevata incidenza che per l'avanzata comprensione di alcuni meccanismi patogenetici.

Le percentuali di successo nel trapianto di midollo osseo - terapia ritenuta d'elezione a tutt'oggi in queste patologie - sono però strettamente legate alla possibilità di identificare i fattori che altrimenti porterebbero al rigetto del trapianto stesso. Infatti, la ricerca di un donatore HLA compatibile, preferibilmente consanguineo, resta il percorso prescelto nell'attuazione del trapianto di midollo osseo. Le indagini sierologiche per la tipizzazione degli antigeni di classe I, II dell'HLA sono state in parte superate da indagini molecolari (o genomiche), permettendo di ridurre l'incidenza di rigetto del trapianto e di Graft Versus Host Disease (GVHD). Il prof. Emil J. Freireich è stato fra coloro i quali, già nei primi anni '50, hanno tentato una definizione più chiara della leucemia dopo l'individuazione del ruolo della transferrina nel trasporto del ferro nel siero, oppure attraverso gli scritti pionieristici del 1958 dove furono confrontati due differenti schemi di polichemioterapia:

  1. a) metotrexate e 6-mercaptopurina giornaliera;
  2. b) 6-mercaptopurina e metotrexate a dosi intermittenti (ogni tre giorni).

Il National Cancer Institute, in realtà, produsse altre scoperte anche negli anni Sessanta attraverso le osservazioni sulla storia naturale della leucemia acuta, gli studi sulla trasfusione di piastrine e la chemioterapia della leucemia acuta dell'adulto. E da allora la ricerca non s'è mai fermata. Anche il prof. Robert Peter Gale si è dedicato alla ricerca sulla leucemia, in particolar modo al trapianto di midollo quale via terapeutica potenzialmente curativa di questa patologia. Il trapianto, infatti, è via d'elezione per la terapia della leucemia linfoblastica acuta, della leucemia mieloide acuta e della leucemia mieloide cronica. Per mezzo dei suoi scritti è stato possibile rilevare il ruolo dei linfociti-T e lo studio sulle terapie di supporto per ridurre l'incidenza di polmoniti interstiziali ed altre complicanze cliniche. Il trapianto di midollo, è ritenuto non solo potenzialmente risolutivo della leucemia ma anche di altre malattie autoimmuni, quali il lupus erythematosus sistemico e l'artrite reumatoide. Proprio su Leadership Medica, sono apparsi articoli di Emil Freireich, Department of Medicine, University of Houston, Texas, USA (N. 1 /91 ); Robert Peter Gale, Division of Oncology and Hematology, UCLA School of Medicine, LosAngeles California USA (10/90); e un numero unico della nostra rivista dedicato interamente al trapianto di midollo osseo, coinvolgendo esperti di diverse branche mediche afferenti (N.3/91).
Ritorniamo, ora, sul tema per aggiornare le conoscenze sullo stato della ricerca e per verificare i risultati ottenuti nei primi anni '90.

Tavola rotonda figura 1Nella redazione di Leadership Medica meeting tra il Direttore, Genina Iacobone,
il prof. Giorgio Lambertenghi Deliliers, il dr. Davide Soligo e il dr. Francesco Bertolini

Intervista al Prof. Giorgio Lambertenghi Deliliers, responsabile del Centro Trapianti di Midollo del Policlinico di Milano

Trapianti di midollo osseo: introdotti notevoli miglioramenti

Tavola rotonda LambertenghiQual è il futuro del trapianto di midollo osseo?
Il futuro sta nella separazione delle cellule staminali dal cordone ombelicale o dal sangue periferico, non più necessariamente dal midollo. Tali cellule vengono coltivate in vitro, espanse e quindi utilizzate per il trapianto. Per il prossimo futuro, quindi, si può ipotizzare che saremo liberati dalla necessità di lavorare sul midollo: basterà un numero abbastanza limitato di cellule staminali totipotenti. Coltivate in vitro, espanse con fattori di crescita emopoietici e trapiantate.

Qual è l'obiettivo attuale?
Obiettivo attuale è quello della ricerca di fonti alternative di cellule staminali per i pazienti che non hanno un donatore in famiglia. Queste persone costituiscono il 70% del campione di pazienti che necessitano di trapianto. Per affrontare il problema del trapianto di midollo essi hanno tre possibilità:

  1. consultare il Registro dei donatori di midollo osseo e verificare l'esistenza di un donatore HLA compatibile; la probabilità di trovare un donatore è tuttavia tanto maggiore quanto più è grande il Registro stesso, ecco perché è necessaria una cooperazione internazionale;
  2. il cordone ombelicale può essere la seconda risposta: si utilizza il sangue raccolto dalla placenta, che altrimenti sarebbe comunque destinato ad essere eliminato, per costituire una banca da cui attingere una fonte alternativa al midollo osseo;
  3. la terza possibilità è quella del trapianto autologo; in questo campo l'utilizzo delle cellule staminali del sangue periferico sembra offrire numerosi vantaggi rispetto all'impiego delle cellule midollari. Le cellule staminali possono inoltre essere coltivate ed espanse in vitro.

Per quanto riguarda la fase di preparazione al trapianto vi sono state mutazioni nei criteri di selezione dei candidati alla donazione, negli ultimi anni?
Il trapianto allogenico con donatore familiare HLA identico è diventato il trattamento di scelta per alcune emopatie maligne che non sono trattabili, o meglio curabili, con la chemioterapia tradizionale, per l'aplasia midollare e per alcune sindromi da immunodeficienza che sono caratteristiche soprattutto dell'infanzia. Le probabilità di trovare nella famiglia del paziente un donatore con le caratteristiche richieste sono tuttavia limitate al 30% circa dei casi. Rimane quindi un 70% di casi "scoperti". Per essi si impone una scelta alternativa, dato che si tratta di malati non curabili con terapie tradizionali. Si ha bisogno, allora, di cellule staminali emopoietiche provenienti da altre fonti. Le strade, come accennato, sono tre: rivolgersi al Registro internazionale di donatori non consanguinei, dove il paziente può trovare il donatore HLA identico; la Banca del sangue placentare, in via di creazione; I’utilizzazione di cellule staminali coltivate ed espanse in vitro. Quest'ultimo settore è quello ritenuto fonte più ricca di possibilità future.
Il prelievo del midollo da donatore effettuato in anestesia totale è uno dei motivi psicologici e materiali che hanno spesso agito da deterrente.

E' cambiato qualcosa nelle tecniche di prelievo oppure no?
E' cambiato poco. Posso dire, però, che la procedura del prelievo è molto più rapida. Infatti, oggi per prelevare un litro, un litro e mezzo di midollo il tempo necessario è di 30 minuti-1 ora in anestesia generale. Le nuove metodiche si pre-sentano però come il superamento imminente dell'aspirazione del midollo osseo in anestesia generale.

Qual è lo stato di conoscenza delle complicazioni tecniche relative al trapianto?
Per quanto riguarda il trapianto allogenico da donatore familiare le complicanze sono diminuite in modo notevole, soprattutto in relazione alla GVHD che oggi può essere benissimo controllata con tarmaci immunosoppressori  e procedure pre-trapianto come la deplezione dei linfociti T.
Le complicanze infettive possono essere oggi prevenute e combattute in modo molto mirato con l'uso di antibiotici ed antimicotici, nonché con misure di prevenzione ambientali (come l'utilizzo di camere sterili a flusso laminare). Le complicanze hanno, invece, ancora oggi una notevole incidenza nel trapianto allogenico da donatore non consanguineo. In questo tipo di trapianto la ricerca deve ancora fare molto perché la GVHD di grado II, III, IV - spesso mortale - è presente anche in percentuali che giungono fino all'80%. Le complicanze infettive da citomegalovirus sono ancora temibili; inoltre si verifica una complicanza che di solito è rara nel trapianto allogenico da donatore consanguineo, cioè la Graft Failure, rigetto del trapianto, che ha un'incidenza che varia dal 20 al 30%.

Quali sono le soluzioni che possono essere intraprese in questo settore?
Abbiamo discusso del registro dei donatori non consanguinei, argomento correlato con altre due considerazioni fondamentali: la prima è quella che, dato il notevole polimorfismo del sistema HLA, si impone una stretta cooperazione internazionale. Poiché le possibilità di riscontro di un donatore perfettamente identico sono calcolabili da  1/50.000 fino a  1/100.000 è necessario disporre di un registro numericamente molto vasto.
Per quanto concerne, invece, le metodiche di tipizzazione, possiamo dire che oggi abbiamo metodiche molecolari e biologiche molto raffinate per identificare l'identità del sistema HLA. Tratteremo successivamente della raccolta di cellule staminali da cordone ombelicale e da sangue periferico e dell'espansione in vitro delle cellule staminali.

In base alle nuove metodiche di tipizzazione dell'HLA, come sono cambiati i criteri di selezione dei donatori?
In passato la caratterizzazione HLA dei pazienti veniva fatta con metodiche sierologiche. Da questo punto di vista si è notato che nel 20% fino a punte del 30% di pazienti si andava incontro ad errori soprattutto nella determinazione degli antigeni di classe seconda dell'HLA. Con queste metodiche quindi, accadeva che si riteneva di avere donatore e ricevente identici, mentre, di fatto, non lo erano. La sensibilità delle metodiche sierologiche è abbastanza bassa e questo spiega gli errori. Ora, si è passati a studiare gli antigeni di classe seconda, HLA-DR con metodiche di biologia molecolare, andando ad analizzare il DNA dei pazienti. I geni che codificano l'HLA sono stati sequenziati, quindi  abbiamo a disposizione sonde molecolari per i vari segmenti del gene dell'HLA. Si tratta di metodiche di biologia molecolare che riescono a dissezionare in modo molto preciso l'HLA e costituiscono attualmente la tecnica usata nei centri più aggiornati. La tecnica è chiamata Polymerase Chain Reaction Sequence Specific Oligotyping (PCR-SSO).
Essa è essenzialmente basata sull'utilizzo di oligonucleotidi, cioè piccoli frammenti di DNA complementare, e sull'uso della PCR per amplificare sequenze di DNA. Grazie a questo riusciamo ad avere informazioni molto più precise sui donatori, evitiamo molti errori del passato e scartiamo pazienti che sembravano identici e, invece, non lo sono. Con queste tecniche riusciremo a ridurre le differenze tra donatore e ricevente, quindi a fare trapianti da registro, con una incidenza molto minore di GVHD che condiziona ancor oggi pesantemente la qualità di vita e la percentuale di mortalità post trapianto. La casistica a nostra disposizione più vasta su trapianti da banca è quella del Feed Hutchinson Center di Seattle dove è stata comparata una casistica del passato, in cui la tipizzazione era stata fatta con metodiche sierologiche con una in cui l'identità HLA era determinata a livello molecolare. Le curve di sopravvivenza dei pazienti con migliore identità dei loci HLA-DR erano nettamente migliori. Tutto questo spiega perché negli ultimi due anni si è insistito molto sulla determinazione dell'HLA-DR con metodiche di biologia molecolare ad alta risoluzione.

Intervista al dott. Francesco Bertolini, Centro Trasfusionale ed Immunologia dei Trapianti, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano

Trapianto di cellule dal cordone ombelicale: una strada per il futuro

Tavola rotonda BertoliniTra le strade intraprese per il futuro, si è discusso del cordone ombelicale. Può descriverci le caratteristiche salienti di questa metodica?
La tecnica nasce ufficialmente nel 1989, perché all'inizio di quell'anno viene pubblicato dal gruppo di Hal Broxmeyer, biologo di Indianapolis, un lavoro molto importante che fa intravedere la possibilità di usare sangue placentare, raccolto immediatamente dopo la nascita, come fonte di cellule staminali da usare per il trapianto. Nel giro di pochi mesi, quella che era solo una ipotesi, si concretizzò in un primo trapianto che fu attuato per merito della professoressa Gluckmann, su di un paziente pediatrico di sette anni, affetto da anemia cronica, attraverso sangue placentare raccolto alla nascita del suo fratellino, risultato essere non affetto dalla malattia ed identico, per gli antigeni di compatibilità, al fratello ammalato.
Il primo trapianto ha avuto un ottimo risultato, tant'è vero che, a distanza di cinque anni, il paziente sta molto bene ed è da considerarsi clinicamente guarito.
Il risultato venne pubblicato e, dal 1989, si è formata una casistica di una quarantina di casi di fratelli trapiantati con il sangue ricavato al momento della nascita dal cordone ombelicale del fratello che risulta compatibile. I dati sono stati raccolti in un gruppo molto eterogeneo di pazienti, sia per patologia (su 35 casi abbiamo almeno 7 diagnosi diverse) sia per età (si va da 1 anno fino a 16).
I dati più interessanti riguardano l'attecchimento, presente nella stragrande maggioranza dei casi, e reazioni GVHD lievi o assenti.
I casi, chiaramente, sono troppo pochi perché se ne possano trarre conclusioni definitive ma l'interesse è molto cresciuto e si sta concretizzando una banca internazionale di sangue placentare tipizzato congelato immediatamente disponibile per il  trapianto. Una banca di questo tipo ha dei vantaggi rispetto ad una banca di donatori di midollo osseo: innanzitutto perché il sangue placentare tipizzato è immediatamente disponibile per il trapianto, mentre sappiamo che il tempo che oggi intercorre tra la richiesta di un donatore compatibile all'interno del Registro internazionale e la definizione del donatore, fino a giungere al trapianto vero e proprio, è di diversi mesi (almeno sei, se vogliamo fare una previsione ottimistica) e questo comporta un aggravamento della malattia in alcuni pazienti. Inoltre, il sangue placentare immediatamente congelato può essere trasportato rapidamente in qualunque nazione del mondo. Come è facile intuire, si tratta di un prodotto che, al contrario di un donatore, può viaggiare con molta facilità. Un altro argomento rilevante è che se si analizza il tipo di donatore presente nei Registri, ci si trova facilmente davanti a donatori di razza bianca, appartenenti al ceppo caucasico o anglosassone, mentre non esistono donatori compatibili per numerose minoranze etniche, non adeguatamente rappresentate nel registro dei donatori. Raccogliendo sistematicamente il sangue placentare è possibile bilanciare donatori di razze diverse, riuscendo ad ottenere cellule disponibili per il trapianto anche per varie minoranze etniche. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno almeno un 30% di minoranze etniche che non sono assolutamente rappresentate nel Registro; questo crea gravi complicanze. Un altro vantaggio è che, trattandosi di sangue appartenente a soggetti che non hanno avuto vita extrauterina, la possibilità di avere cellule contaminate da virus è estremamente bassa. L'esempio del citomegalovirus, particolarmente dannoso per il ricevente, ci da alcune informazioni utili: nelle grandi città europee ed americane più del 70% dei donatori risulta portatore di questo virus. I neonati ne sono portatori, invece, meno che nell'1 % dei casi. Il vantaggio finale è che le cellule raccolte dal sangue placentare sono anche un vettore molto utile per future terapie geniche.
I programmi che sono in corso in tutto il mondo per costituire banche di sangue placentare a livello mondiale, fanno capo a due esperienze: quella americana del New York Bank Center con oltre 2.000 prelievi e che ha già consentito due trapianti da banca, e l'esperienza europea, frutto di una collaborazione tra diversi Stati come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l'Italia che hanno raccolto un buon numero di cordoni, circa 1.000. Di questi, oltre 300 sono stati raccolti a Milano e sono tipizzati e disponibili per il possibile trapianto. Queste nazioni si stanno organizzando, ora, per dialogare con il Registro statunitense. Ritengo che, nel giro di due anni, sarà possibile, nel caso di pazienti che necessitano di trapianto di midollo, fare delle richieste sia al Registro dei donatori adulti che al Registro delle cellule placentari.

Può descrivere gli aspetti scientifici di questa metodica e le sue fasi salienti?
La tecnica di raccolta è molto semplice e non comporta alcun rischio né per la madre né per il neonato. Lo si può affermare sulla base di più di 3.000 prelievi effettuati in USA e in Europa. Al momento della nascita del bambino, il cordone ombelicale viene chiuso, come accade normalmente, e il sangue residuo che resta nella placenta viene raccolto con una tecnica sterile in apposite sacche contenenti anticoagulanti. Questo sangue è estremamente ricco di cellule staminali e può essere usato senza alcuna manipolazione, oppure può essere separato allo scopo di ridurre il volume da congelare. Al momento, il sangue placentare raccolto con questa tecnica viene congelato in foto e conservato in azoto liquido a -196° C, dove resta disponibile per decenni per un eventuale trapianto.

Quante cellule staminali vengono ad essere raccolte con questa metodica?
Vengono raccolti circa 70 ml di sangue placentare, con una grande variabilità legata al peso dei bambini al momento della nascita. Possiamo aggiungere che la concentrazione di cellule staminali è simile se non superiore a quella del numero di cellule presenti nel midollo osseo.
Il dato interessante, inoltre, è che queste cellule, dal punto di vista immunologico, sono molto "naive" rispetto a quelle del midollo osseo, in quanto appartengono ad un soggetto che non è mai entrato in contatto, durante il corso della vita uterina, con batteri, virus ed altri antigeni se non quelli materni. L'assenza di una stimolazione precedente giustifica la minore aggressività di queste cellule e la minore incidenza di GVHD.

Questa metodica richiede una collaborazione dei ginecologi, le risulta che vi sia?
Soltanto con una buona collaborazione tra medici incaricati della raccolta, ginecologi e personale ostetrico è possibile ottenere una raccolta valida. La nostra esperienza, nel primo anno rivolto alla costituzione di una banca, è estremamente positiva ma è necessaria una continua sensibilizzazione non solo dei ginecologi ma anche dei medici che seguono i pazienti con malattie ematologiche, visto che bisogna rendere sempre più nota la necessità di raccogliere il sangue del cordone ombelicale di un eventuale figlio successivo. Questa deve essere un'opzione immediatamente disponibile per parenti affetti da quel genere di patologie: si tratta di un'opportunità che non deve essere persa.

Negli Stati Uniti vi è qualche proposta di legge che renda obbligatoria la raccolta di sangue da cordone ombelicale, materiale ritenuto ancor oggi di scarto in ambito ospedaliero? Dal punto di vista tecnico quali sono le eventuali difficoltà da superare perché questa metodica divenga di routine?
Il problema tecnico principale è  la complicazione relativa alla possibilità di conservare il sangue placentare di tutti i neonati.
Al momento è assolutamente improponibile per la difficoltà tecnica di allestire banche di queste proporzioni.

Se vi fosse la disponibilità del trasporto dai centri di ginecologia e ostetricia verso una banca di sangue placentare, i tempi tecnici di prelievo, raccolta, congelamento e trasporto sono possibili?
Sì, certamente. Il problema, tutt'al più, sarebbe di carattere economico. L'ingresso di sangue placentare in una banca comporta: tests di tipizzazione, che come abbiamo visto sono complessi; test di malattie trasmissibili col sangue come HIV, vari tipi di epatite, etc.; la crioconservazione del materiale. Il tutto ha un costo che si avvicina al milione di lire per prelievo, costo accettabile ma al momento non assorbibile con i pochi fondi destinati alla ricerca.

Interviene il Prof. Lambertenghi

Vorrei aggiungere che un prelievo di midollo costa alla collettività, in Italia, circa dieci milioni.

Vi sono stati casi in cui una gravidanza è stata programmata per l'eventuale raccolta di sangue placentare per effettuare un trapianto?
Alcune famiglie si sono rivelate molto sensibili a questa possibilità. Nell'ultimo anno, da quando cioè abbiamo offerto questa possibilità di raccolta di sangue placentare, abbiamo effettuato 12 raccolte mirate, al momento della nascita di fratelli di bambini affetti da malattie ematologiche. In due casi i prelievi erano anche compatibili e ci stiamo accingendo ad effettuare un trapianto.

Passiamo, ora, ad esaminare una metodica ancora più proiettata verso il futuro, ovvero l'utilizzo di cellule staminali da sangue periferico.
Prof. Lambertenghi, può illustrarcene gli aspetti principali?
Noi sappiamo che le cellule staminali emopoietiche sono presenti in piccolo numero nel midollo, nel sangue fetale e, da vario tempo, è noto che sono presenti - in una percentuale minore - anche nel sangue periferico dei soggetti normali. Sappiamo anche che le cellule staminali sono regolate da numerosi fattori di crescita. Questi ultimamente sono stati caratterizzati in modo molto dettagliato dal punto di vista funzionale e molecolare e sono ormai per lo più disponibili, anche a livello commerciale, come molecole ricombinanti. Un particolare che vorrei aggiungere riguarda le cellule staminali del sangue periferico. Normalmente queste cellule sono presenti in numero molto basso nelle persone in stato normale; si è visto, però, che pazienti trattati con un breve ciclo di chemioterapia hanno, dopo circa 15 giorni, un aumento notevolissimo di cellule staminali nel sangue periferico. Facciamo un esempio: un paziente viene sottoposto a trattamento con un chemioterapico, generalmente la ciclofosfamide, successivamente interviene una fase di aplasia midollare e, dopo circa 15 giorni, si ha la comparsa nel sangue periferico di un picco di cellule staminali. A questo punto, si è pensato di raccogliere le cellule staminali attraverso leucaferesi, cioè con macchine che raccolgono leucociti; è stato constatato che i leucociti raccolti da leucaferesi sono ricchi di cellule staminali ed è stato pensato di utilizzare questo materiale per effettuare i trapianti. E' stato verificato, in questa fase, con sorpresa, che quel tipo di cellule staminali attecchivano benissimo ma producevano una ripresa dei valori leucocibri e piastrine più veloce che nei pazienti trapiantati con midollo. Successivamente, queste tecniche si sono ulteriormente perfezionate e si è visto che se si aggiungeva ad un breve ciclo di chemioterapia un trattamento con un fattore di crescita per cellule emopoietiche, ed in particolare con G-CSF e GM-CSF, l'aumento delle cellule staminali da sangue periferico aveva un incremento ancora maggiore.
Per fare un esempio, il trapianto di cellule staminali ottenute da sangue periferico è stato effettuato in soggetti affetti da carcinoma della mammella e, quindi, con midollo assolutamente indenne da malattia; pazienti, perciò, in cui era anche lecito fare un trattamento chemioterapico e con fattori di crescita.
La successione delle fasi, allora, è questa: si fa un trattamento polichemioterapico seguito dal fattore di crescita, si raccolgono le cellule staminali, esse vengono congelate, successivamente il paziente viene sottoposto ad una radiochemioterapia a dosi sovramassimali per cercare di eradicare la malattia ed infine gli si reinfondono le cellule staminali da sangue periferico. Ultima considerazione: non è più nemmeno necessario fare il chemioterapico per poi utilizzare il fattore di crescita; basta fare cinque giorni di trattamento con il fattore di crescita, come ad esempio il G-CSF, e nel soggetto normale si ha un aumento molto elevato di cellule staminali periferiche.
Si può ulteriormente precisare che il trattamento con G-CSF non è tossico dato che gli effetti collaterali sono minimi. Sintetizzando: in un soggetto normale, si attua un trattamento con fattore di crescita, si fa una raccolta di cellule staminali da sangue periferico e questo materiale viene usato per trapiantare altri soggetti HLA identici.

Intervista al dott. Davide Soligo, Ematologo presso il Centro di Trapianto del Midollo del Policlinico di Milano

Cellule staminali coltivate in vitro: le ultime frontiere della scienza per il trapianto del midollo

Tavola rotonda SoligoIl metodo della coltivazione in vitro delle cellule staminali rappresenta l'avanguardia della ricerca relativa al trapianto di midollo. Può descrivere la fase attuale di studio?
Le cellule staminali sono cellule perenni, presenti in piccolo numero e a lenta proliferazione, responsabili del mantenimento e della produzione di tutte le cellule del sangue. Attualmente si conosce la maggioranza dei fattori che regolano la proliferazione e la differenziazione delle cellule staminali. E' possibile isolare queste cellule dal midollo, dal sangue periferico o dal cordone ombelicale, e coltivarle in vitro, in fiasche per culture cellulari, oppure ancora in attrezzature sviluppate recentemente, chiamate "bioreattori", in cui i fattori di crescita e tutti i nutrienti vengono inseriti in ciclo continuo. Le cellule staminali si riproducono ed aumentano di numero.

Il problema della compatibilità, in questo modo, viene superato?
La compatibilità è un problema di fondo e che rimane tale.
La cosa più importante, però, è che il donatore resta meno impegnato che nella donazione di midollo osseo. Inoltre, espandendo il numero delle cellule staminali superiamo un altro aspetto che è il problema del rigetto del trapianto o il difficoltoso attecchimento constatato spesso in alcuni pazienti, probabilmente perché il numero delle cellule staminali reinfuse non è sufficiente.
Con l'espansione in vitro si potrebbe superare questo problema. Un altro elemento da considerare è l'espansione del cordone ombelicale. Esso è stato utilizzato fino ad ora per trapiantare bambini, al massimo è stato utilizzato in un ragazzo di 50 chili; temiamo, però, che le cellule staminali presenti nel cordone ombelicale non siano sufficienti per attuare un trapianto in un adulto. Sappiamo, tuttavia, che le cellule staminali presenti nel cordone ombelicale hanno una potenzialità di crescita notevole, probabilmente perché sono cellule meno mature e, quindi, più facilmente stimolabili. Potenzialmente sappiamo che possono espandersi moltissimo, per cui è facile immaginare che nell'adulto il trapianto di cellule ottenute da cordone ombelicale possa essere in futuro la scelta ottimale.

Con il GCSF, qual è l'aumento numerico delle cellule staminali in vivo e in che arco di tempo?
Possiamo sintetizzare: cento volte in cinque giorni.
Questo incremento si verifica cinque-sei giorni dopo la somministrazione del fattore dì crescita, mentre quando si attua la sequenza chemioterapia-fattore di crescita bisogna aspettare molto di più.

Quali tempi riuscite a prevedere per l'applicazione su larga scala di questa tecnica di trapianto?
Ritengo che in due-tre anni possa essere applicata tecnicamente e che in cinque anni il trapianto di cellule staminali da sangue periferico, sia da donatore HLA identico che da donatore non consanguineo che attraverso autotrapianto, verrà a sostituire quasi completamente il trapianto di midollo classico.
Tre anni fa circa è stato individuato un fattore di crescita per le cellule emopoietiche, definito "stem cell factor" che, in vitro, da uno stimolo proliferativo enorme alle cellule staminali. Sono in corso trial clinici in vivo utilizzando questo nuovo fattore di crescita in combinazione con GCSF o GMCSF.
Questa combinazione sembrerebbe indurre una modificazione di cellule staminali del sangue periferico ancora maggiore, passando così, ad esempio, da 100 a 1000 volte.

Genina Iacobone
Direttore