da Leadership Medica n. 9 del 2000
Inutile negarlo: i risultati della ricerca scientifica sollecitano la coscienza ogni giorno con questioni che ogni volta sembrano tanto assurde da far sussurrare agli anziani: "Ma dove andremo a finire?", "Che razza di mondo avranno i nostri nipoti?" e via dicendo. Non c'è tregua. L'etica che abbiamo voluto mettere per anni in un cassetto come scomodo insieme di divieti torna alla ribalta con la sua eterna domanda: "È bene?", "È male?". E legata all'etica con un filo sottile, trasparente ma forte ed indissolubile, ecco tornare a galla la filosofia. L'unica scienza che non "serve" a niente ma che dà senso a tutto. Partiamo, dunque, alla ricerca di regole, con l'umiltà di intraprendere un cammino, che si può tracciare solo strada facendo, sulla via della bioetica, per chiarire in modo competente quali siano i termini della discussione in corso nella comunità scientifica .
Luisa Miccoli
La bioetica oggi è di moda, ma non è una moda. Anche se sono ancora molte le discussioni che riguardano la determinazione del suo statuto espistemologico, cioè i caratteri specifici della bioetica (una nuova etica? un'etica pubblica? l'aggiornamento della deontologia medica?), i problemi che essa affronta sono reali e concreti, e ci interpellano in modo radicale.
Chi pensa, o spera, che la bioetica sia una moda e che, come tutte le mode, passerà, ritiene che, in fondo, i problemi sollevati siano soltanto la passeggera eco del disagio di quanti non sono capaci di apprezzare le novità del nostro tempo.
Eppure la bioetica ha segnato un punto importante nella recente storia della nostra cultura di uomini occidentali: essa ha posto in luce come non bastasse più l'immagine ottocentesca di una scienza in sé moralmente neutra, capace di generare soltanto progresso ed emancipazione, ha iniziato a discutere, sebbene con esiti differenti, i modelli teorici dello sviluppo, ha cercato di comprendere meglio le conseguenze morali e sociali della trasformazione della medicina, in una parola, ha posto a tema il significato della civiltà tecnologica, del suo impatto sulle forme reali e simboliche della vita.
Noi oggi tendiamo ad evocare la bioetica quando discutiamo di fecondazione in vitro, di trapianti, di biotecnologie che modificano vegetali, animali e piante.Ci spaventiamo, od esultiamo, di fronte alla possibilità della clonazione e del controllo genetico, ma, in fondo, tendiamo a pensare che, in ogni caso, questi sono problemi che riguardano soltanto un certo uso della tecnologia e della scienza, sicuri che, in ultimo, non sono problemi che riguardino proprio tutti.
Anzi, si rafforza la tesi che sia bene passare dalla bioetica di frontiera alla Bioetica quotidiana, come recita il titolo del libro appena pubblicato da Giovanni Berlinguer, attuale presidente del Comitato Nazionale di Bioetica.
Certo, esistono questioni che interessano direttamente un numero maggiore di persone rispetto a quelle coinvolte nelle prassi dei trapianti, delle rianimazioni, delle fecondazioni in vitro.
Ma sarebbe sbagliato credere che le teorie messe in atto nelle riflessioni sui "casi estremi" rimangano circoscritte e non finiscano, invece, con il condizionare la mentalità e la prassi quotidiana.
La strategia culturale con la quale si tenta di depotenziare ogni serio esercizio critico nei confronti delle dinamiche con le quali stiamo costruendo le tappe dell'attuale società tecnologica passa proprio attraverso questa marginalizzazione dei problemi e dei temi più radicali: i grandi miti dell'Occidente, quello del progresso infinito e della neutralità morale dell'impresa tecnoscientifica, tendono infatti a tranquillizzare le coscienze e a confinare nell'area dei pessimisti e dei tradizionalisti coloro che pongono sul tavolo della riflessione pubblica le conseguenze di un approccio univoco ai temi della vita, vegetale e animale, e dell'esistenza umana. Svolgere una funzione critica non significa negare il valore della ricerca scientifica, sottovalutare il contributo di benessere apportato dall'incremento della tecnologia e dal potenziamento della medicina come sapere e come arte: significa, invece, non identificare immediatamente sviluppo con progresso; significa non sottovalutare quale immagine dell'uomo e della realtà si sta affermando laddove cadono i confini tra ciò che è lecito moralmente e ciò che non lo è; significa sapere che il sistema della ricerca scientifica e della prassi medica interagisce con il sistema dell'economia e della Weltanschaung del ricercatore; significa ricordare che non tutti i limiti che si incontrano sul piano degli esperimenti possono essere tranquillamente pensati come puri ostacoli, che debbono essere soltanto superati;significa sapere che tutti siamo coinvolti, in misura differente, dalle scelte pratiche e teoriche che alcuni attuano in nome del "bene" della cosiddetta umanità.
Finché la bioetica mantiene aperta questa fondamentale funzione di verifica intellettuale e pratica, essa ha ragione di esistere.
I processi scientifici e tecnologici, infatti, debbono essere governati e indirizzati e non è vero che esiste una sola strada ed una sola strategia dell'incremento del sapere e dell'operare.
Di fronte ai casi estremi, ai casi-limite ci consoliamo dicendo, appunto, che sono eccezioni e andiamo a cercare, ognuno nel proprio territorio, un'autorità in grado di rassicurarci, sia che la tranquillità cercata coincida con un'assoluzione o con una condanna della tecnica.
Ciò che ancora fatichiamo a fare, ciò che invece la bioetica ci inviterebbe a fare, è la fatica di pensare seriamente a quale immagine della civiltà e dell'umanità si staglia dentro i fatti con i quali costruiamo le tappe della nostra esistenza.
Di fronte alla possibilità di generare in laboratorio un essere umano allo stadio embrionale, di conservarlo a basse temperature, di studiarlo, manipolarlo, modificarlo, farlo nascere nel grembo di una donna che non necessariamente è la madre biologica, ci interroghiamo usando gli strumenti concettuali con i quali abbiamo pensato alla questione dell'aborto; discutiamo sulle figure della paternità e della maternità usando le tradizionali categorie del desiderio, dell'amore, del diritto, e sembra che non ci rendiamo conto della svolta epocale che introduce una così radicale trasformazione della generazione umana. Progettandosi come prodotto biologicamente controllabile, l'uomo può ancora pensare al problema della fertilità e della sterilità, della paternità e della maternità, secondo il linguaggio simbolico che gli permetteva di vedere nella riproduzione una vera e propria procreazione?
L'irrompere della zootecnia nella ginecologia non trasforma alla radice il nostro stesso modo di pensare, di parlare, dell'umano?
La possibilità di trapiantare organi, tessuti, arti, prelevandoli da viventi o da cadaveri, non ci interroga sui confini ed il senso di questa corporeità vissuta che ci è tanto familiare da risultarci quasi ignota nelle sue profondità?
Il confine, già labile, tra normale e patologico, tra vita e morte, non riceve nuove scosse dai processi tecnologici che ci permettono di prolungare la vita in condizioni che sembrano di non vita, come quella che sonnecchia latente in una provetta, in attesa di una gestazione e di un parto, o quella che pulsa silenziosamente in un corpo che sembra respirare ma che invece segue docile i ritmi di un respiratore?
Siamo diventati di nuovo questione a noi stessi: e lo stiamo diventando attraverso l'opera delle nostre mani. La vita, la morte, la sofferenza ed il dolore, restano: ma restano in una condizione umana che, nella dilatazione delle possibilità, non è in grado di dirsi compiutamente.In questa situazione che cosa può voler dire il riferimento all'etica, alle radicali nozioni di bene e mali morali?Quale finalità, progettualità, l'uomo sta perseguendo su se stesso?
L'uomo sta diventando esperimento di se stesso, in un contesto di razionalizzazione delle forme dell'agire che lascia aperta la questione decisiva del suo essere uomo.
La bioetica non è una moda, poiché tutti siamo imbarcati dentro questa storia di uomini che è la civiltà tecnologica.
La bioetica non diventerà una moda se eviteremo di digerirla dentro il consunto schema manicheo che polarizza e semplifica ogni dibattito in termini di progressisti e conservatori, libertari e reazionari, atei e credenti.
Ma siamo davvero certo che possediamo le categorie adatte per poter trasformare un problema in una soluzione, per poter fornire nuovi itinerari per una paideia, una Bildung, una formazione adeguata ai nostri tempi? L'accelerazione delle ricerche, spinte anche dalle esigenze dell'economia, chiede scelte rapide, e non mancano biologi e medici, scienziati e giuristi, filosofi e politici che si spingono a fornire ricette: ma i tempi del pensare non sono quelli del fare e la complessità di ciò che la nostra civiltà progetta richiede, impone, uno sforzo di pensiero che sia all'altezza delle nostre produzioni scientifiche. Se la bioetica non vuole essere una moda deve potersi dare, deve poter chiedere, un tempo nuovo per pensare: un tempo in cui la riflessione filosofica torni ad essere res publica; un tempo per ritrovare la base su cui conciliare il bene del singolo con quello della comunità; un tempo per costruire una civiltà in cui nessuno sia uno straniero morale; un tempo che ci eviti di caricare le nuove generazioni dei pesi delle nostre temerarietà e delle nostre paure.
Ma abbiamo ancora tempo?
Adriano Pessina
Docente di filosofia morale e di bioetica Università Cattolica di Milano