da Leadership Medica n. 2 del 2001
Uno degli argomenti che nella recente storia della bioetica è stato spesso affrontato riguarda la determinazione di quale etica debba fare da fondamento o almeno da sfondo alla bioetica.
Risulta evidente, infatti, che non è possibile risolvere alcuni dei dilemmi etici che lo sviluppo della biomedicina pone alla coscienza dell’uomo senza individuare dei criteri, delle norme, dei principi.
Ad uno sguardo attento, però, la questione è, per certi versi, anche più complessa. Infatti, non soltanto per rispondere ai problemi morali, ma persino per definire una situazione particolare in termini di “problema morale” occorre un’analisi che trascende la pura descrizione fattuale. Detto in altri termini: la morale costituisce un punto di vista globale sull’azione umana e interessa, in linea di principio, ogni atto libero e consapevole dell’uomo.
Quando parliamo di dilemmi morali, infatti, intendiamo semplicemente segnalare come non sia facile determinare, qui ed ora, che cosa sia bene o no fare. Ma la dimensione morale dell’azione umana, benché venga posta raramente a tema, e fatta oggetto di riflessione critica, è già presente in ogni nostra scelta libera e consapevole. Sotto questo aspetto, avevano ragione i positivisti quando segnalavano un fatto, e cioè che la morale è prima di tutto l’ambiente culturale (e quindi anche il linguaggio) con cui ogni uomo partecipa alla vita della società a cui appartiene. La morale, perciò, diventa problema, e problema filosofico, soltanto quando si incomincia ad interrogarsi sulle ragioni che ci portano a considerare come buono o cattivo un determinato comportamento.
Ma per lo più ognuno di noi è abituato a vivere e a valutare in base ai criteri, ai principi, ai valori che ha, per così dire, “succhiato con il latte materno”.
Anche chi svolge la ricerca scientifica partecipa di questi convincimenti e di fatto orienta le sue scelte, svolge le sue considerazioni, in base all’idea che ci sia qualcosa che valga o no la pena di ricercare, proclama la sua fedeltà alla verità della sua ricerca, ne rivendica la libertà e spesse volte ne proclama l’utilità per il bene dell’umanità stessa. Insomma, ricerca e valuta insieme. Infatti, chiunque voglia motivare ciò che sta facendo ed indicarne la rilevanza deve far ricorso ad un orizzonte di senso e di valori che ritiene condiviso o, perlomeno condivisibile.
La familiarità che ogni uomo ha con i termini della morale indica semplicemente che, in linea di principio, nella dimensione morale non c’è alcuna estraneità tra gli uomini, poiché i conflitti, le divergenze, le valutazioni differenti riguardano il “che cosa sia bene fare” e non certo l’idea che, se qualcosa è bene, esso debba essere fatto. Questa osservazione non vuole certo ridimensionare la consapevolezza che esistono valutazioni morali tra loro contrastanti, persino opposte, ma soltanto segnalare la ragion d’essere della riflessione filosofica. Infatti, se è vero, per certi versi, che non bisogna essere filosofi per agire moralmente bene, e che, da questo punto di vista la filosofia sembra essere “inutile”, per un altro aspetto risulta chiaro che è proprio dell’indagine filosofica tentare di spiegare e di giustificare, fin dai tempi Aristotele, che cosa si debba intendere per bene e quali siano i differenti beni che l’uomo è chiamato a realizzare.
Questo compito di chiarificazione non è semplice e la storia della filosofia testimonia questo incessante sforzo di comprensione. Ma per chi è estraneo alla metodologia propria dell’indagine filosofica, questa storia di disamine e di controversie sembra, per dirla con Hegel, una galleria dei pazzi, destinata più a confondere le idee che a chiarificarle. Il procedimento dialettico della filosofia, che non riconosce altra autorità che non sia l’evidenza guadagnata tramite l’argomentazione e la confutazione delle tesi che si oppongono a quella che si vuole sostenere, genera sconforto in chi, invece, è abituato a procedere per accumulazione di dati e vorrebbe avere a portata di mano delle affermazioni “indiscutibili”, avallate una volta per tutte dal consenso generale.
Ma in filosofia il criterio del puro consenso non ha mai avuto molto ascolto poiché il compito della filosofia è prima di tutto quello di essere “critica”, cioè incessante verifica dei convincimenti che l’uomo esprime intorno al senso della sua vita e al significato delle sue azioni. A parte il fatto che un’attenta analisi della storia della filosofia permetterebbe di rilevare non soltanto conflitti, ma anche profonde ed articolate convergenze, magari espresse con linguaggi differenti, va rilevato che questa storia si è costruita in termini di discussione perché ha conservata una certa fiducia nei confronti della ragione umana e della sua capacità di trovare delle verità capaci di reggere nel tempo e di orientare nei suoi aspetti fondamentali l’esistenza umana.
Ma quando la filosofia non si accontenta di essere ancilla (sia essa ancilla theologiae o scientiarum o tecnologiae) risulta, per certi versi, una presenza scomoda.
Una certa insofferenza nei confronti della presenza dei filosofi nella discussione bioetica, che non risulta più appannaggio soltanto delle considerazioni dei medici o dei giuristi, nasce anche dalla difficoltà di comprendere le caratteristiche proprie dell’indagine filosofica, che sembra spostare i termini delle questioni e rimandare il momento della decisione e della scelta, collegandolo ad un impianto che per molti appare astratto ed inutilmente complicato. In parte questa impressione ha le sue ragioni: per chi è chiamato, nella prassi concreta, a decidere in tempi rapidi e in situazioni particolari, “che cosa fare”, il piano argomentativo della filosofia e la sua propensione a distinguere, a discutere anche persuasioni che sembrano consolidate, risulta una specie di “perdita di tempo”.
Da più parti, infatti, da parte di chi pure riconosce una qualche autorevolezza al sapere filosofico, si chiedono prima di tutto soluzioni, proposte e non disamine e dibattiti. Salvo poi, quando le indicazioni che vengono fornite non risultano conformi ai convincimenti personali del medico o dello scienziato, ritornare a trincerarsi dietro l’idea che, sul piano morale, alla fine ognuno deve decidere in conformità alla propria coscienza, intendendo con coscienza morale il puro verdetto del soggetto e non, come intende la filosofia, la capacità del soggetto di individuare ciò che è veramente bene in quella situazione particolare. Eppure, proprio questa scorciatoia soggettivistica evidenzia quanto mai sia necessaria la filosofia e il suo spirito critico: infatti la pretesa scelta soggettivistica è molto più intrisa di convincimenti assimilati dall’ambiente di appartenenza di quanto non si pensi.
Ma quando si intende scegliere in chiave morale, si vuole scegliere non soltanto per se stessi ma, come direbbe Sartre, in “nome dell’intera umanità”. Questo coinvolgimento dell’immagine dell’umano nell’ambito della scelta morale è ciò che chiede di essere pensato: in un’epoca in cui la ragione accelera i tempi delle scoperte e induce alla rapidità delle scelte, i tempi lunghi della riflessione filosofica risultano essere sempre più indispensabili, anche se spesso fraintesi.
L’impresa bioetica, se non vuole ridursi ad una procedura formale dettata dalle consuetudini della cultura prevalente, o dalle norme stabilite dalle singole società, ha bisogno dell’apporto specifico della filosofia.
Adriano Pessina
Docente di Filosofia Morale e Bioetica Università Cattolica di Milano