Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 3 del 2000

Parlare di emotrasfusioni significa affrontare una problematica dai molteplici e complessi risvolti. Le nostre testate si sono occupate più volte dell'argomento, che in Italia - come spesso succede in materia di sanità - ha dato origine a polemiche e dissensi  non solo nel mondo politico ma anche in quello scientifico. Come se non bastasse, il diffondersi del virus Hiv ha causato, per la verità anche in altri paesi europei, ulteriori perplessità sulla attendibilità dei controlli cui vienesottoposto il sangue offerto dai donatori.
A tutto questo vanno aggiunte considerazioni che hanno a che fare con la bioetica (altro tema da noi trattato assiduamente), considerazioni meno scontate di quello che potrebbero apparire. L'opinione comune è che le trasfusioni siano un trattamento, certamente estremo, ma accomunabile a tanti altri: il paziente che necessita di plasma deve subire tale trattamento, fermo restando che deve avere tutte le garanzie del caso. In realtà non è così, e qui subentra un altro delicato aspetto del problema: l'opposizione alle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova. Alcuni episodi sono approdati agli onori - o disonori - della cronaca, allorché la magistratura è intervenuta per superare il mancato assenso all'emotrasfusione su pazienti minorenni da parte di genitori che, appunto, si professavano testimoni di Geova.
Ed il nodo è proprio questo: molti non sanno che la trasfusione, in quanto terapia non immune da rischi, necessita, per essere effettuata,  del consenso informato del paziente o di chi ne fa le veci.
Scienza, religione, diritto: una coesistenza difficile
E' notorio che il ricorso all'emotrasfusione si rende indispensabile in interventi nei quali la sopravvivenza del paziente è in pericolo. Di conseguenza chi si oppone a questo tipo di trattamento passa spesso per un incosciente, che, in ossequio a pur rispettabili principi religiosi, mette a repentaglio la vita di un congiunto; i giornali, da parte loro, enfatizzano la notizia, e da qui a creare il “mostro” il passo è breve.

Nel rivendicare “l'astensione dal sangue” - non cibarsi di sangue ma neanche immettere nel proprio corpo sangue altrui - i Testimoni di Geova si richiamano a numerosi passi della Bibbia, sia dell'Antico Testamento (Genesi, Levitico), sia del Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli). Senza entrare nell'esegesi biblica, che spetta ad altri e, in questo contesto, può apparire fuori luogo, bisogna limitarsi a constatare che mentre cattolici e laici dibattono su temi di bioetica che riguardano gli ultimi progressi della scienza medica (fecondazione artificiale, biotecnologie etc.),  la pur ristretta comunità di Geova continua a non accettare una prassi largamente accettata e diffusa. Il giudizio su certi comportamenti spetta soltanto al lettore, mentre è certo più interessante comprendere fino a che punto la scienza è in grado di offrire soluzioni alternative e, allo stesso tempo, quali siano le normative, nazionali e internazionali, in materia di consenso informato, oltre che le eventuali recenti acquisizioni della giurisprudenza italiana.
Per la verità la documentazione inviata dagli uffici relazioni pubbliche dei Testimoni di Geova consente di avere un quadro della situazione  abbastanza delineato.
Innanzitutto, come accennato in precedenza,  un Decreto Ministeriale del 15/1/91 dichiara che la trsfusione di sangue “costituisce una pratica terapeutica non esente da rischi...e necessita pertanto del consenso informato del ricevente”. 
L'art. 1 della “Carta dei servizi pubblici” - contenuta nel Decreto del Presidente del consiglio dei ministri del 19/5/1999 - afferma inoltre: “Il paziente ha diritto di essere assistito e curato con premura ed attenzione, nel rispetto della dignità umana e delle proprie convinzioni filosofiche e religiose”.
Passando al diritto internazionale, la Convenzione del Consiglio d'Europa  (Strasburgo, 19 novembre 1996), stabilisce (art. 5) che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e consapevole” e che inoltre “la persona interessata può, in qualsiasi momento, ritirare liberamente  il proprio consenso”.
Dulcis in fundo, il Codice di Deontologia Medica, emanato nell'ottobre del '98,  recita (art. 32): “In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici  e/o curativi, non essendo consentito  alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
Quanto al ruolo dei congiunti, una sentenza del Tribunale di Messina (Ufficio GIP, 26 luglio 1995) ha sancito due punti fondamentali:
1)Non è responsabile del reato di omicidio volontario il medico che ometta un intervento chirurgico ad alto rischio, nell'ipotesi di dissenso espresso del paziente stesso o delle persone che lo rappresentano, in caso di incapacità di quest'ultimo.
2)Non è responsabile del reato di omicidio volontario il congiunto che rifiuta un intervento chirurgico ad alto rischio da effettuarsi  su un paziente in stato di incapacità.
Si trattava del caso di un paziente che, giunto in ospedale in condizioni serie e poi aggravatosi ulteriormente, non era stato sottoposto ad un intervento chirurgico (comunque dall'esito dubbio), che avrebbe sicuramente reso necessario il ricorso a trasfusioni. Infatti i familiari, testimoni di Geova, vi si erano opposti. L'ipotesi accusatoria - secondo cui erano da considerare colpevoli tanto i medici, che non avevano proceduto nonostante il mancato assenso, quanto la moglie del paziente - è stata dunque sconfessata dal giudice, che si è pronunciato su una tematica molto controversa, per la quale manca tuttora un'interpretazione univoca.
Il medico fin dove può intervenire?
La giurisprudenza italiana riflette una realtà nella quale a confrontarsi sono due posizioni. Alcuni infatti sostengono che il medico deve salvare le vite umane “ad ogni costo”, altri invece considerano primario, e quindi vincolante, il parere del paziente, al quale spetta il diritto di rifiutare - anche a rischio della propria sopravvivenza - un trattamento cui non ritiene di doversi sottoporre.

Fino a qualche anno fa  prevaleva, tra i giuristi che si occupavano di bioetica,  la tendenza a porre la tutela della vita umana sopra ogni altra cosa. In altre parole il “consenso informato” era solo formalmente una “condicio sine qua non”, spesso violata dalla volontà dei medici di adottare, in situazioni particolari, le terapie reputate più idonee. Solo recentemente il “diritto alla salute” di cui all'art. 32 della Costituzione viene inteso in senso ampio, ovvero come diritto non solo ad essere curati ma anche a decidere in ordine ai trattamenti terapeutici cui il paziente viene sottoposto. Non a caso ha cominciato a diffondersi, in bioetica, un altro concetto assai delicato, quello di “accanimento terapeutico”. Appare infatti scontato che un medico non debba avallare l'eutanasia - magari somministrando sostanze che favoriscano la “dolce morte” - ma molto più difficile è discriminare tra le terapie quelle di incerta efficacia e, nel caso specifico, inutilmente aggressive verso il paziente. Si entra in un campo denso di incognite e la stessa formula di “consenso informato” non costituisce una garanzia sufficiente. L'informazione che il medico fornisce prima di  procedere con un determinato trattamento dovrebbe essere - come recita un documento del Comitato Nazionale di Bioetica (20 giugno '92) - “a) adatta al singolo paziente in relazione alla sua cultura e alla sua capacità di comprensione da un lato e al suo stato psichico dall'altro; b) corretta e completa circa la diagnosi, la terapia, il rischio, la prognosi” 
E' evidente che per soddisfare tali requisiti l'informazione deve provenire da un professionista qualificato, che non cerchi di forzare, attraverso la sua autorità, la volontà del paziente. In realtà, nella maggioranza dei casi, il “rapporto fiduciario” che si instaura tra medico e paziente fa sì che quest'ultimo deleghi ogni decisione a chi lo cura, senza interferire con obiezioni di varia natura. L'obiezione “di principio” che i testimoni di Geova oppongono all'emotrasfusione può essere vista, al di là della questione strettamente religiosa, come un'affermazione dei diritti dell'ammalato di fronte alla presunta onnipotenza del medico.
Le alternative all'emotrasfusione
Fino ad ora però abbiamo solo sfiorato quello che rappresenta il nodo cruciale di tutto il discorso, ovvero la possibilità di fare a meno dell'emotrasfusione. I controlli sul plasma donato sono stati intensificati e perfezionati ancor prima che l'Aids cominciasse con l'imperversare; e tuttavia, ancora oggi, nessuna attendibile autorità sanitaria può garantire che gli screening sul sangue siano sicuri al 100%.

Detto questo, rimane da chiarire quali siano le tecniche alternative e il loro grado di affidabilità.
Le  pubblicazioni periodiche dei testimoni di Geova parlano di 90.000 medici nel mondo disponibili ad operare senza ricorrere a trasfusioni e riportano i pareri favorevoli di illustri rappresentanti del mondo accademico internazionale. 
Al di là delle istanze religiose, riteniamo che la messa a punto delle tecniche operatorie che rendano superate le trasfusioni sarebbe in ogni caso un passo fondamentale.
Nell'ambito della cardiochirurgia, ad esempio, sono già state sperimentate l'”ipotermia indotta”,  l'”emodiluizione intraoperatoria” e il “recupero intraoperatorio”.
Non vogliamo, a priori, né avallare né contestare la validità di queste tecniche. La rassegna stampa fornita dai testimoni di Geova è densa di articoli che parlano di operazioni che, adottando le tecniche alternative menzionate, sono perfettamente riuscite. Le interviste ai chirurghi che le hanno effettuate ne confermano l'efficacia e non saremmo certo noi a metterle in discussione.
Il nostro compito di divulgatori scientifici è tuttavia quello di procedere con i piedi di piombo. Ci chiediamo, ad esempio, che tipo di disponibilità offrano i 90.00 medici di cui sopra. Si tratta di disponibilità a 360 gradi o di una semplice affermazione di non essere, a priori, contrari a questo tipo di metodiche? Sappiamo infatti che certe tecniche alternative richiedono spesso tempi di svolgimento più lunghi del normale e, talvolta, esigano un doppio intervento, se si vuole evitare l'emotrasfusione. E qui subentrano considerazioni di natura logistica, in particolare se si limita l'analisi alla realtà italiana, in riferimento alla quale non possiamo affermare che le strutture possano garantire un servizio così impegnativo al paziente, soprattutto negli ospedali più gravati di pazienti e di problemi gestionali oltre il livello di guardia.
Una seconda obiezione è di carattere puramente statistico. Per convalidare l'affidabilità di una terapia, chirurgica e non, occorre  disporre di una casistica abbondante, che non si limiti a pochi episodi ma fornisca un marker di lungo termine di sicura attendibilità.
In ogni caso la ricerca di terapie sostitutive e della cosiddetta “chirurgia senza sangue” è dovuta a vari fattori; non esiste una ricerca fatta solo a vantaggio di una categoria sociale o di un gruppo religioso, in questo caso i testimoni di Geova. Indubbiamente questi ultimi, con il loro comportamento, hanno richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica su un problema che già i medici avevano posto in rilievo. Del resto la diffusione, attraverso le trasfusioni, dell'epatite C è sempre stata un fenomeno non trascurabile, cui si è sovrapposto quello, anche più drammatico, dell'Aids.
Il discorso è ancora più importate per un paese, come l'Italia, nel quale l'approvvigionamento di plasma è sempre stato carente e, anche recentemente, oggetto di polemiche tra i vari organismi che si occupano della sua raccolta e distribuzione. Sono noti i dissidi tra l'Istituto Superiore di Sanità, che dipende dal Ministero, e la Croce Rossa Italiana, che si è candidata a gestire autonomamente tutto il settore del sangue e degli emoderivati, anche provenienti dall'estero. Per fortuna il Ministero ha lasciato il compito all'istituto Superiore di Sanità, che ha tutte le prerogative necessarie a fornire il massimo delle garanzie.
Della questione ci siamo occupiamo da molto tempo - basti ricordare l'inchiesta di Gianni Cirone pubblicata su “Leadership Medica”  e “Leader for Chemist” tra il '95 e il '96 (nn. 9/95, 3/96, 5/96, 7/96) e i ripetuti interventi del nostro direttore su questo tema - e abbiamo avanzato la proposta poi sostenuta dall'on. Bruno (n. 9/91). Nel 1991 l'on. Bruno, sottosegretario alla Difesa, propose, per incrementare le scorte di plasma interno, di sottoporre a prelievo, non obbligatorio ma “incentivato”, i militari di leva.
Poi il governo cadde e anche questo interessante progetto venne accantonato.
Sui prossimi numero della rivista pubblicheremo alcuni articoli che approfondiranno le metodiche che, in questa sede, abbiamo soltanto accennato.
I nostri lettori, per lo più farmacisti e chimici, avranno la possibilità di formarsi un'opinione completa.

La Redazione