da Leadership Medica n. 8 del 2003
La salute è un bene prezioso, ma il sogno di conoscere il futuro rischia di trasformarci tutti in malati immaginari e di farci sprecare preziose risorse umane, intellettuali ed economiche.
I test genetici sono considerati, da parte di molti, come il futuro della medicina. Molti conoscono i test genetici prenatali, o quelli che, nell’ambito della medicina legale servono per accertare relazioni parentali o scagionare eventuali indiziati di reato.
Pochi sanno che ciò che si sta prospettando è la diffusione di test genetici post-natali, che dovrebbero essere in grado di individuare la predisposizione a nuove patologie.
Al di là della loro eterogeneità, possiamo classificare i test genetici in 4 tipologie:
1) test diagnostici: servono per confermare la presenza di una patologia (oggi sono molto diffusi a livello prenatale). Il valore conoscitivo e la funzione medica del test diagnostico sono noti: nessuno però può sottovalutare il fatto che spesso sono usati come strumenti selettivi e si trasformano in una sottile politica di stampo eugenetico (o, come oggi si preferisce dire, eugenico).
2) Test pre-sintomatici: servono per individuare il rischio di una patologia, in assenza di sintomi, in quelle persone che appartengono a famiglie in cui una determinata malattia si era già manifestata.
3) Test per l’identificazione di portatori sani: servono, attraverso sistemi di screening di massa, per individuare soggetti che potrebbero essere portatori di malattie ereditarie (es. la talassemia mediterranea o la fibrosi cistica nei Caucasici).
4) Test predittivi: servono, in teoria, per individuare possibili esposizioni a malattie molto comuni, che di solito non sono collegabili alla presenza di un solo fattore genetico anomalo.
Qual è il fondamento epistemologico di queste ricerche? In estrema sintesi, esso poggia sul convincimento che si possa stabilire un nesso di causa/effetto tra modificazioni genetiche e determinate patologie.
Non entreremo in merito alla fondatezza dell’ipotesi scientifica, che risulta tanto più esatta quanto maggiormente è circoscritta: si deve però aggiungere che la verificabilità o falsificabilità di tale ipotesi si intreccia con modelli statistici complessi, e non può essere giustificata soltanto su basi induttive.
Fingendo che l’ipotesi sia largamente condivisibile, quali sono gli scopi dei test predittivi?
Di solito se ne indicano tre:
a) ampliare le conoscenze scientifiche
b) portare beneficio alle persone malate, alle loro famiglie e indirettamente alla società;
c) favorire elementi per le scelte di vita della persona, sia nel campo delle relazioni interpersonali (le cosiddette scelte riproduttive), sia nel settore del lavoro, al fine di pianificare anche gli interventi delle politiche sanitarie.
Di questi obiettivi, l’unico che non può essere raggiunto dai test è il secondo: bisogna subito chiarire che i test in sé non hanno alcuna funzione terapeutica: sapere se e come sorge una malattia non sempre significa sapere anche come guarirla o curarla.
Non c’è dubbio, comunque, che i test genetici e gli screening possono aumentare le conoscenze scientifiche, ma con quali “costi”, non soltanto economici? Infatti, e così entriamo in merito al terzo obiettivo -quello che concerne le scelte personali e di politica sanitaria- la diffusione dei test predittivi genera una situazione molto controversa e moralmente delicata.
Effetti indesiderati, ma inevitabili
Se escludiamo i test diagnostici, tutti gli altri indicano “un rischio malattia” (con approssimazioni più o meno esatte, anche perché, fino ad oggi, sono molti i falsi positivi e i falsi negativi dei test) che può però avere degli effetti indesiderati sulle persone e sulla stessa struttura sanitaria. Il primo effetto indesiderato, ma inevitabile, dei test predittivi, è quello di trasformare pesantemente l’esistenza delle persone che si trovano collocate nella categorie “ a rischio”. Si tratta di persone che non sono malate, ma che, nella misura in cui credono al potere predittivo della scienza, vivranno il tempo della salute con l’angoscia di perderla: se la malattia profetizzata è di tipo genetico, nessuno stile di vita potrà di per sé modificarne il decorso.
La predisposizione a una malattia a base genetica non è una “malattia genetica”, ma il rischio è quello di creare una schiera di “malati immaginari”.
Il secondo effetto, è quello di indurre le persone “a rischio” a ricorrere costantemente a test di monitoraggio, con la conseguenza di indurre delle persone sane, prive dell’esperienza della malattia, a vivere “come dei malati”.
Il rischio malattia farebbe lievitare i costi sociali dei controlli sanitari, inducendo quella medicalizzazione dell’esistenza da più parti criticata. Si avrebbe l’estensione di quelle prassi di controllo della salute che oggi vanno sotto il nome di campagne di “prevenzione”: come è noto, però queste campagne, malgrado il nome, non servono per “prevenire” la malattia, ma per fare delle diagnosi precoci l’Organizzazione mondiale per la salute ha ribadito che i test genetici dovrebbero essere sempre effettuati volontariamente e che dovrebbero essere accompagnati da un’attività di consulenza genetica, ma questi auspici in che modo potranno essere attuati se si crea una campagna di pressione sociale che propone i test genetici come il nuovo modo per sapere come si starà?
Il diritto di non sapere e il diritto all’informazione
In linea di principio, il cittadino ha sia il diritto di sottrarsi ai test genetici (il cosiddetto “diritto di non sapere”), sia il diritto alla riservatezza (il complesso tema della tutela della privacy), ma questo diritto come potrà essere esercitato se si crea una campagna culturale che indica i test genetici come una sorta di dovere verso se stessi e verso gli altri?
In realtà ci potrebbero essere molte persone interessate allo stato di salute della singola persona, e con motivazioni tra loro differenti.
Famigliari, amici, datori di lavoro, il sistema sanitario o assicurativo, tutti potrebbero rivendicare un qualche “diritto di sapere”.
Il paradosso che si verrebbe a creare, e che potrebbe essere in larga parte alimentato da prospettive di mercato, è quello di voler rassicurare il cittadino circa la segretezza dei dati che riguarderanno il suo futuro stato di salute, ma, nello stesso tempo di spingerlo, però, a sottoporsi ai test per esigenze di pianificazione sanitaria, che comportano, di per sé, una qualche diffusione dei dati. Laddove il sistema sanitario fosse caratterizzato da un mix di pubblico e privato, le compagnie di assicurazioni risulterebbero interessate a sapere quali rischi corrono i propri assicurati, in modo da predisporre un adeguato rapporto tra costo della polizza e eventuale copertura assicurativa.
Ma in questo caso si potrebbe verificare un altro effetto perverso: coloro che risultassero “a rischio” potrebbero essere costretti a pagare polizze poco accessibili per il loro reddito. Ma lo stesso mercato del lavoro potrebbe far uso delle conoscenze sullo stato di salute “possibile” del lavoratore per dar luogo a delle discriminazioni. In vista di questi effetti, in alcuni Paesi si è già provveduto a vietare l’uso di queste conoscenze per operare delle discriminazioni sociali: certo, il divieto è formalmente ineccepibile, ma quali garanzie si possono realmente dare affinché, in modo criptico, non filtrino tali notizie?
Resta poi il tema delle relazioni interpersonali: saremo indotti a chiedere alla nostra futura moglie o al nostro futuro marito un certificato di “sana e robusta costituzione genetica” per evitare di trasmettere, anche in assenza di malattie nei nostri predecessori, qualche “rischio” malattie? Ci avvieremo verso una strisciante, ma invadente linea eugenetica?
Sarà cioè, la salute, ad essere il nuovo criterio di valutazione del valore della persona umana?
Finiremo con il creare una nuova categoria,quella dei “malati potenziali”?
Con quali vantaggi?
I test predittivi sono funzionali a certe esigenze di mercato, poiché il desiderio di recuperare gli alti costi economici della ricerca genetica può spingere alla creazione di bisogni e di prodotti che permettano di recuperare gli investimenti, ma è molto difficile sostenere che siano funzionali alla razionalizzazione del sistema sanitario.
In realtà, tutte le risorse impiegate nella cosiddetta “medicina predittiva” (che è termine contraddittorio) sono risorse sottratte alle pratiche di cura dei malati reali. In un sistema di assistenza che sia attento ai principi della solidarietà umana e non soltanto a quelli dell’efficienza, si impongono delle scelte.
La genetica è un’impresa conoscitiva seria e i test diagnostici possono costituire un aiuto alla prassi medica, ma non è necessario, per potenziare queste linee di ricerca, inventare una prassi predittiva che rischia di diventare un mezzo di discriminazione sociale.
Per sapere che prima o poi ci si ammalerà e che, prima o poi si morirà, non c’è bisogno di un test genetico predittivo, basta essere consapevoli della nostra condizione umana, di persone finite.
La salute è un bene prezioso, ma il sogno di conoscere il futuro (già alimentato da oroscopi, maghi e cartomanti) rischia di trasformarci tutti in malati immaginari e di farci sprecare preziose risorse umane, intellettuali ed economiche.
Professor Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica
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