Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 3 del 2007

L’intolleranza è come il cuculo, depone le uova dove meno te lo aspetti, persino in documenti che vorrebbero combattere l’intolleranza stessa.

Nel 1973 l'associazione psichiatrica americana, a maggioranza, stabilì di togliere l'omosessualità dall'elenco delle malattie psichiatriche: nel 1984, l'OMS ratificò questa scelta togliendo l'omosessualità dall'elenco delle malattie.
Il 18 gennaio 2006 il Parlamento Europeo adotta una Risoluzione sull'omofobia; il 25 giugno 2006 viene approvata, sempre dal Parlamento Europeo, una Risoluzione sull'aumento del razzismo e della violenza omofobica. L'omofobia viene definita "come una paura irrazionale o un'avversione contro l'omosessualità e il lesbismo, i gay, le persone bisessuali e transessuali basata sul pregiudizio e perciò simile al razzismo, alla xenofobia e al sessismo". Ora, il termine omofobia, che deriva dal greco, indica l'avversione, la paura, verso l'identico: l'omofobia, giudicata come esito di un pregiudizio, viene condannata come forma di intolleranza e di discriminazione e perciò il Parlamento europeo "sollecita vivamente gli Stati membri e la Commissione a intensificare la lotta all'omofobia mediante un'azione pedagogica, ad esempio attraverso campagne contro l'omofobia condotte nelle scuole, le università e i mezzi d'informazione, e anche per via amministrativa, giudiziaria e legislativa". Tra gli atti che vengono considerati discriminanti c'è il fatto che i "partner dello stesso sesso non godono di tutti i diritti e le protezioni riservati ai partner sposati di sesso opposto, subendo di conseguenza discriminazioni e svantaggi". Ora, la lettura di queste Risoluzioni risulta essere, per così dire, molto interessante. La prima osservazione che si può fare è che non esiste, in linea di principio, un nesso logico tra la definizione di una patologia e la prassi della discriminazione.

Il Parlamento Europeo sollecita vivamente gli Stati membri e la Commissione a intensificare la lotta all'omofobia mediante un'azione pedagogica, ad esempio attraverso campagne contro l'omofobia condotte nelle scuole, le università e i mezzi d'informazione, e anche per via amministrativa, giudiziaria e legislativa.

Definire una persona affetta da Sindrome di Down o dal Parkinson non significa affatto sminuire il valore e la dignità personali: una definizione clinica non comporta alcuna valutazione morale o alcuna prassi discriminatoria. Anzi, laddove una discriminazione avvenisse sulla base di una situazione patologica sarebbe ancora più grave. Per lo stesso motivo logico, non si potrebbe assimilare l'atteggiamento di intolleranza, di discriminazione o di disprezzo nei confronti delle persone omosessuali con la tesi, di stampo clinico, che annoverava l'omosessualità come patologia. Valutazione clinica e pregiudizio sociale, di per sé, sono questioni differenti. In sé, infatti, nessuna forma patologica dovrebbe originare forme di discredito: perciò dovrebbe essere condannata ogni forma di stigma sociale nei confronti di qualsiasi malattia. Pertanto si potrebbe condividere la condanna nei confronti degli atteggiamenti cosiddetti omofobi senza per questo condividere l'affermazione che l'omosessualità non è una patologia. Ma la Risoluzione, invece, annovera tra i pregiudizi e tra le forme di offesa e di discriminazione la stessa idea che l'omosessualità sia una malattia. Da un punto di vista logico non si capisce, però, perché definire qualcuno malato sia offendere qualcuno: la malattia, di per sé, non è una colpa e non può essere annoverata tra gli insulti, ma tra le definizioni.
Caso mai il problema sarà domandarsi: su quali basi si può o no escludere che l'omosessualità sia una malattia. Si potrà dire che è sbagliato, privo di fondamento adeguato il giudizio clinico formulato fino agli anni 70, ma non si potrà concludere che quella valutazione era soltanto una forma di discriminazione. Ora, poiché la psichiatria e la medicina contemporanea tendono, nelle loro linee prevalenti, ad escludere che l'omosessualità sia una malattia, non resta che annoverare l'omosessualità nell'ambito degli atteggiamenti personali, delle scelte, delle decisioni di stili di vita. Ma se l'omosessualità è una scelta libera, uno stile di vita, un certo modo di essere e di esistere, allora resta aperta la questione, che vale per qualsiasi scelta di vita e di modo di essere (come quello eterosessuale, per esempio) di come debba essere valutata, di come, e se, debba essere socialmente e giuridicamente tutelata e promossa la relazionalità di tipo omosessuale. Non basta, infatti, che una scelta sia libera, che un certo modo di essere sia autentico, perché debba essere tutelato, difeso e promosso socialmente e giuridicamente. La libertà, di opinione e di pensiero, infatti, richiede il rispetto anche delle persone che non condividono stili di vita che possono o no essere più o meno diffusi. Che cosa significa, infatti, discriminare? E quando una discriminazione è ingiustificata e ingiusta? Discriminare, di per sè, significa distinguere, distinguere significa differenziare e differenziare e distinguere non costituisce alcuna ingiustizia o alcun errore se non si stabilisce che non esistono le differenze che si vogliono, appunto, differenziare. Ora, che l'omosessualità non sia identica all'eterosessualità è evidente: una volta appurato che omosessualità ed eterosessualità sono scelte o modi di relazione, resta aperta la questione teorica della loro valutazione. Qualsiasi comportamento, infatti, può essere valutato, lodato, biasimato, incoraggiato o no, Un conto, infatti, è il giudizio sulle persone ( e in ultima analisi nessuno dovrebbe mai giudicare una persona perché una persona, in quanto libera, è sempre di più delle scelte che compie e può sempre fare scelte differenti), un altro, invece, è la valutazione dei comportamenti. Così, per esempio, si può dissentire nei confronti della poligamia o, per esempio, della poliandria e ritenere che essa non debba venire tutelata o difesa socialmente. Si può apprezzare l'amicizia e la si può praticare, ma si può anche ritenere che non debba essere giuridicamente tutelata a differenza di altre relazioni che si ritiene, invece, per vari motivi, di tutelare o vietare (come, per esempio la poligamia o la poliandria). Il fatto che l'omosessualità non sia né una colpa, né una devianza, né una malattia comporta semplicemente che, come ogni scelta, decisione, pratica relazionale, venga valutata, apprezzata o biasimata. C'è chi non apprezza, e a volte persino, irride alla pratica della castità, alla difesa della verginità, senza che si possa dire che castità e verginità siano patologie o siano ingiustamente discriminate rispetto ad eterosessualità o omosessualità. Se negli orientamenti sessuali (ma in tutti?) non c'è confine tra normale e patologico, c'è però confine tra ciò che è si ritiene moralmente legittimo o no. Che, storicamente, si siano commessi abusi e ingiustizie nei confronti di persone omosessuali è vero: che oggi questo non deve più accadere è giusto. Ma assimilare quelle ingiustizie alla formulazione di valutazioni etiche che non condividono l'esercizio delle prassi omosessuali è ingiusto ed è lesivo della libertà di pensiero, di opinione e di valutazione. La stessa nozione di omofobia lascia perplessi: l'omofobia sarebbe una nuova forma di patologia socio-culturale da controllare e punire? nei confronti degli omofobi sarebbero giusto praticate forme di correzione e di biasimo analoghe a quelle che un tempo alcuni invocavano per le persone omosessuali? Ma se l'omosessualità è prassi normale come l'eterosessualità, se è scelta libera e volontaria, perché non può essere discussa e valutata alla stregua dell'eterosessualità? Non tutte le scelte eterosessuali e non tutte le relazioni eterosessuali sono da lodare e da incoraggiare: perché mai si può discutere di queste, mentre sarebbe un tabù discutere delle relazioni omosessuali? Qualsiasi persona omosessuale non si sentirebbe in realtà discriminata proprio dal fatto che le proprie azioni godrebbero, a differenza delle azioni e delle scelte degli eterosessuali, di una sorta di tutela preventiva, la persona omosessuale non sarebbe ancora posta in una condizione di minorità visto che le sue scelte, i suoi stili di vita, le sue decisioni sarebbero per definizione, per legge, sottratte a qualsiasi valutazione? L'omofobia, se è ingiustizia, non è paura o patologia, è errore che va discusso e corretto nel libero confronto tra persone: i campi di rieducazione di chi ha valutazioni non corrispondenti al pensiero dominante sono una storia che pensavamo vecchia. Queste risoluzioni sull'omofobia, al di là delle buone intenzioni, non sembrano più prossime alla logofobia? E alla logofobia, alla paura del pensare e del discutere, dovremmo sottrarci tutti, eterosessuali e omosessuali, gay o lesbiche, transessuali o no, se vogliamo prima di tutto riconoscerci come persone, cioè come amanti del logos che è garanzia per la libertà del valutare, del giudicare, del vivere insieme. L'intolleranza è come il cuculo, depone le uova dove meno te lo aspetti, persino in documenti che vorrebbero combattere l'intolleranza stessa.

Prof. Adriano Pessina
Cattedra di Bioetica Università Cattolica di Milano