Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 3 del 2006

Nella Sanità italiana di oggi il rischio che si corre, nel quale molti sono già caduti, sia quello di ragionare più sul benessere fisico che non sulla "salus"

Senza passare come il lodatore dell’antichità, o svilirne la scientificità, mi pare tuttavia di poter sostenere che la classificazione medioevale della medicina tra le arti liberali (filosofia, musica, arte, teologia...) avesse una qualche ragionevolezza che in parte andrebbe di nuovo riscoperta. Diceva, infatti, Platone:

«Quella che si chiama felicità è una forma di perfetta salute, e non solamente del corpo»

In un recente convegno, organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Italiani di Milano, con la presenza del card. Tettamanzi, il priore Enzo Bianchi ha dato una definizione d’ “anima” in cui mi ritrovo e che verificano quotidianamente nella mia professione medica: «L’anima è strettamente unita al corpo perché l’uomo spirituale, rende spirituale anche il corpo, lo rende corpo di gloria sempre in atto di trasfigurazione grazie alle energie dello Spirito Santo».
Parlare quindi di cultura della malattia - a mio giudizio - ha senso solo se questo discorso è un capitolo della cultura più generale. Mi pare invece che oggi il rischio che si corre, nel quale molti sono già caduti, sia quello di ragionare più sul benessere fisico che non sulla “salus” che è un insieme di salute fisica e salvezza spirituale.
A questo riguardo, credo che la cosa più importante, sia quella di rimarcare la necessità di un’autonomia del mondo sanitario (medico, ospedale, amministrazione, ecc.) dal potere politico ed economico. Parlo d’autonomia, perché in questi ultimi cinquant’anni c’è stato uno stravolgimento sia del concetto di salute sia del concetto d’ospedale. Esso è divenuto, da luogo di hospitalità, azienda. La qual cosa, non lo nascondo, ha anche aspetti positivi, come l’ottimizzazione delle risorse e la creazione di pazienti-clienti soddisfatti; tuttavia ha pure non pochi lati negativi. Ciò che secondo noi, medici cattolici, predomina in questo momento il criterio del risparmio; un criterio che si ripercuote pure sulla valutazione dei professionisti: chi sta nel bilancio è un buon medico, chi lo sfora non lo è.
Ma una simile visione, ritengo, sia penalizzante per l’ospedale pubblico (la medicina è una conquista sociale a disposizione di tutti) il confronto con la struttura privata accreditata, per esempio, non può reggere a lungo. Fatte salve alcune eccezioni nelle strutture private il profitto è l’obiettivo più importante e facilmente raggiungibile per la presenza di una burocrazia più agile, per la libertà di scelta del personale oltre che del paziente, il quale è mediamente ricoverato in base alla patologia più “redditizia”. L’ospedale pubblico, invece, deve accogliere tutti. Non è ammesso escludere dall’hospitalità patologie croniche, poiché non rendono. Ovviamente per contro il sanitario di una struttura pubblica non deve muoversi sperperando le risorse
Tuttavia, si ha la percezione, che questo concetto del privato si stia infiltrando pure nelle strutture pubbliche.
Umanizzazione della sanità non significa umanesimo oppure (cultura umanistica) bensì modo di sentire di vivere la sofferenza altrui con una visione altruistica della medicina.
La storia degli ospedali, di molti ospedali del resto, coincide in buona parte con la storia dell’assistenza sanitaria fornita dalla chiesa in cui prioritaria era ed è la carità e la solidarietà. Solidarietà nella sofferenza deve essere tuttora il loro scopo, pertanto, ritengo che per umanizzare la sanità siano almeno tre i settori nei quali intervenire.

L’Università.
Il docente deve insegnare agli studenti come comunicare e come affrontare i momenti più importanti della vita: la nascita, la malattia, la morte. E’ necessario insegnare che la professione sanitaria è un servizio da rendere alla società e alla persona. Il percorso accademico, e lo dico come docente, in questo è ancora carente. Sono stati introdotti, in verità, corsi di bioetica e di deontologia medica, tema negli ultimi tempi dimenticato e oggi ne stiamo scontando le conseguenze di tale ignoranza.
Di notevole importanza è tener presente che l’atteggiamento del paziente è cambiato, sia nel rapporto con le strutture ospedaliere, col medico curante, una volta detto “di famiglia”. Il rapporto non è più fiduciario, ma è diventato contrattuale. Spesso capita che è il paziente a valutare il medico, poiché - grazie ai media - l’ammalato oggi è normalmente più informato in medicina, un’informazione superficiale ma che trasforma il rapporto da fiduciario in rapporto contrattuale, che spesso finisce in rapporto conflittuale soprattutto quando il paziente vuole sostituirsi al medico sulle terapie. Del resto sottoposti ad un pressing del marketing farmacologico sono sia il malato che il medico ma questa pseudo informazione limita la libertà del medico messo come scienziato a dura prova.
Oggi, infatti, non basta assicurarsi con polizze assicurative , ma è necessario avere la conoscenza delle normative di legge per tutelarsi dalle eventuali azioni giudiziarie che sempre più spesso il paziente intraprende non solo in caso d’errore. Facile quindi comprendere che da passione la professione ne viene attenuata. Ritengo, a tal proposito, necessario la classe medica si riadoperi per riacquistare la fiducia da parte dei pazienti.

Nell’ospedale.
L’opera d’umanizzazione deve toccare pure l’operatore sanitario intermedio il quale deve essere il Samaritano della parabola che “paga”, anche se non è tenuto, e che si cura con amore della persona, nella sua totalità, al di là dal suo impegno professionale questa è la parte più difficile da attuare. Dico sempre ai miei studenti e alle persone cosiddette non credenti (non penso, infatti, che esistano atei, ma solo individui in ricerca) che la fede mi ha aiutato ad essere scienziato. Anche negli Istituti, come questo in cui lavoro, dove si fa ricerca, non può non apparire abbastanza chiaro il legame tra scoperte scientifiche e biologiche e la trascendenza. L’evoluzionismo, del resto, tanto per fare un esempio, non è in contrasto con la fede. La distinzione riguarda lo scopo della vita non l’origine della creazione. In effetti, più si scopre il particolare - con la ricerca in ogni campo - più si delinea chiaramente il quadro generale. Non solo le persone ma anche le cellule, infatti, hanno una vita programmata, uno scopo. Il medico, quindi, a mio giudizio, scopre o irrobustisce la fede non solo col tradizionale rapporto empatico col malato, con la sofferenza, ma anche con la ricerca scientifica onesta.
Il Testamento biologico del quale si parla tanto, ha fatto la fortuna di tanti giornali del mondo laico. Per noi medici cattolici l’accanimento terapeutico è senza dubbio sbagliato. Il compito del medico è quello di curare - nel senso anche di accompagnare - la persona sia nella malattia sia nel momento ultimo della propria vita. Come è proposto nel dibattito contemporaneo, invece, diciamolo chiaramente, il testamento biologico combacia con l’eutanasia. Infatti, ammesso che vi sia qualcuno che lo sottoscrive; chi ci assicura che al momento opportuno quella stessa persona sarà ancora d’accordo con la decisione presa? E altri in virtù di tale testamento non ne procurino la morte?
La rivoluzione operata dalle biotecnologie - per esempio - sta creando l’illusione di poter manipolare la vita umana, la nascita viene ritenuta un evento del caso, e la morte un evento da poterne spostare la scadenza sempre più avanti.
La separazione tra vita e morte ha tuttavia radici lontane. Nel ’700, ad esempio, la nascita di un nuovo pensiero ha modificato persino l’urbanistica. L’istituzione dei cimiteri, con la separazione della città dei vivi da quella dei morti, ha relegato la morte in uno spazio murato, così come la malattia negli ospedali, la follia nei manicomi, la devianza nelle carceri. Tuttavia, nonostante il tentativo di rimuovere l’ansia del morire, il tema ritorna. E va affrontato, non eluso. Ma, diciamolo francamente, fuori del contesto più ampio e illuminante della Risurrezione, ogni spiegazione del dramma della morte è parziale e non tranquillizza.

Giorgio Lambertenghi Deliliers