Sezione Medicina

da Leadership Medica n. 1 del 2003

Introduzione

Le modifiche introdotte1 al titolo V della seconda parte della Costituzione interessano direttamente i temi sociali e, tra questi, quello della Salute, tanto da poter incidere in modo rilevante sulle future norme che ne ridisegneranno nei particolari l’organizzazione e, con essa, l’individuazione dei diritti a godere più o meno gratuitamente delle prestazioni sanitarie.2 Ciò avverrà ovviamente con modalità progressiva in quanto le leggi costituzionali, com’è noto, non sono autoapplicabili, bensì preordinate a fissare i criteri ed i limiti cui il Legislatore ordinario deve fare riferimento ed attenersi nel regolamentare la materia di suo interesse3, nel rispetto della “direttrice” che garantisca a tutti i cittadini lo stesso trattamento sanitario e l’accesso ai servizi pubblici in condizione di eguaglianza, giusto il principio contenuto nell’articolo 3 della Carta.

La sussidiarietà verticale.

Il dettato costituzionale che direttamente si occupa della ripartizione delle competenze legislative è contenuto nell’articolo 117. Esso distribuisce le competenze legislative e regolamentari, lo fa adottando un processo inverso a quello primitivamente sperimentato. Una svolta, questa, che assume un significato di non secondaria importanza dal momento che inverte i criteri di riparto delle competenze, riconoscendo la competenza legislativa de residuo in capo alla Regione, piuttosto che allo Stato. Lo fa, dicevamo, predeterminando analiticamente le materie di competenza esclusiva della Autorità centrale ed affidando alle Regioni la competenza legislativa relativa alle materie “residuate”, passando per la elencazione della cosiddetta legislazione concorrente ed introducendo, con questo, nella nostra Costituzione un forte elemento di previsione di marcata scelta federalista. Più specificatamente in tema di Salute, il comma 2, lettera m, del riferito articolo 117 riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Il successivo comma 3 prevede, invece, che la “tutela della salute” sia materia di legislazione concorrente, rispetto alla quale, quindi, la potestas legislativa (cosiddette leggi di dettaglio) e quella regolamentare spettano alle Regioni, mentre rimane di competenza esclusiva dello Stato quella che si riferisce alla determinazione dei principi fondamentali (cosiddette leggi quadro ovvero di cornice).
Questa impostazione offerta dalla nuova lettera costituzionale, dalla quale certamente deriveranno sostanziali mutamenti istituzionali, potrà determinare una sensibile differenziazione nella distribuzione dell’offerta reale di Salute nel Paese e, quindi, realizzare una sorta di disparità sul territorio nazionale nel godimento del servizio sanitario da parte del cittadino-utente. In definitiva, alla luce di ciò, si correrà il rischio che i confini regionali saranno anche identificativi della qualità e della quantità dell’offerta di Salute erogata dal sistema sanitario regionale di appartenenza, con l’amara conseguenza che si accelererà sul piano della frequenza il fenomeno migratorio denominato “della speranza”.
La Regione sarà, pertanto, il riferimento istituzionale competente a legiferare nel dettaglio e, conseguentemente, a rideterminare l’organizzazione del proprio sistema sanitario e l’economia necessari ad assicurare ai propri amministrati il “libero” godimento dei diritti sociali, tra i quali ovviamente quello della tutela della Salute.
Di tale diritto viene riconosciuta in capo allo Stato la potestà di fissare, con legge cornice, i principi fondamentali e, nell’esercizio del potere esclusivo, i livelli essenziali4 delle prestazioni sanitarie da garantire sull’intero territorio nazionale. Il primo passo da seguire sarà, dunque, quello di individuare quali siano “i livelli essenziali delle prestazioni” ed “i principi fondamentali” in tema di tutela della Salute sui quali lo Stato dovrà adeguare tutta la propria normazione. Il processo di identificazione di tali livelli (LEA) e dei principi fondamentali sarà complesso e certamente non facile, anche perché la ricerca utile alla loro non confusa individuazione dovrà essere affrontata nel rispetto di quei principi irrinunciabili che caratterizzano e ridisegnano il più attuale ed ideale diritto alla Salute.
Il concetto di “essenziale” nella sanità, è stato precisato5, traduce tutto ciò che è rispondente a soddisfare i reali bisogni di Salute che la gente esprime, una rispondenza da intendersi nel senso di essere appropriato dal punto di vista dell’efficacia clinica e delle modalità di erogazione e, quindi, garantito (o meglio da garantirsi!) in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale.
Tale concetto, per come sottolinea la dottrina enunciata, non è pertanto l’espressione della logica del “minimum package”, inteso come livello minimo al di sotto del quale non si può andare e, pertanto, non identificabile come livello di intervento di tipo residuale.
Il problema della identificazione e della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti sociali è comunque un problema che “affligge” tutti gli ordinamenti pluralistici, laddove alla previsione di una disciplina differenziata degli stessi corrisponderebbe una diversa protezione che tali diritti possano trovare nell’una ovvero nell’altra parte del territorio nazionale.
Una interessante dottrina ha infatti sottolineato che “in ogni sistema costituzionale più vi è un decentramento a favore delle autonomie territoriali – non c’è dubbio che la riforma del titolo V è stata un grandissimo impulso in questo senso – e più aumenta la rilevanza e la capacità espansiva e precettiva dei principi e degli istituti che garantiscono l’unità e la solidarietà fra le parti del sistema”.6
La stessa dottrina osserva, in tema di determinazione concreta dei livelli essenziali delle prestazioni, che “la definizione non può essere una definizione solo quantitativa” e che “proprio per la varietà e anche per la opinabilità di questa determinazione verosimilmente sarà un campo di possibili, se non probabili conflitti, tanto più probabili quanto più la determinazione sarà fatta dallo Stato in un modo unilaterale e non partecipato”.7
Proprio sulla base di queste attente premesse alcuni autori8 hanno ritenuto di affermare (diciamo noi giustamente!) che i livelli essenziali non possono essere individuati stabilendo l’intero contenuto delle prestazioni al rango di Autorità centrale, perché se così avvenisse poco resterebbe affidato alla capacità governativa regionale, e quindi all’esercizio della loro autonomia in materia. Con l’affidamento in capo alle Regioni della piena potestà legislativa e di governo si è ritenuto, infatti, che “bisogna trovare una via di mezzo, cioè individuare dei livelli essenziali che siano soddisfacenti, ma che siano realmente essenziali e non coprano la totalità delle prestazioni lasciando poi all’iniziativa e alla capacità di governo regionale il compito di provvedere al resto; il livello essenziale è quello che non può essere intaccato, è quello che assicura la garanzia dei diritti, ma il contenuto dei diritti assicurato in tutto il territorio nazionale non può essere il contenuto completo dei diritti, perché altrimenti alle regioni non rimarrebbe nulla”. Più specificatamente in tema di Salute il problema è rappresentato dal fatto che non è previsto nella lettera della Costituzione, a differenza di quanto accade per altri diritti fondamentali (per esempio l’istruzione), l’obbligo per lo Stato di essere presente con proprie emanazioni istituzionali di assistenza su tutto il territorio nazionale, rimanendo in capo allo stesso solo l’obbligo di assicurare cure gratuite agli indigenti, in ossequio al precetto espresso nell’articolo 32.
Tale previsione costituzionale e (re)individuazione del diritto alla Salute determinerà scelte politiche su scala regionale fortemente differenziate, fino a spingerne alcune ad intraprendere la strada della parziale privatizzazione del servizio della Salute. In proposito si è posto l’accento9 sulla necessità di non percorrere in materia sanitaria “la strada dei puri nomenclatori di prestazioni” al fine di pervenire alla individuazione dei livelli essenziali delle stesse e, quindi, di abbandonare la “logica contrattualistica, tipica del modello assicurativo”, logica incompatibile con le ragioni che giustificano l’intervento pubblico in tema di diritto Salute che “non sono quelle di semplicemente garantire un’assicurazione pubblica e obbligatoria”, ma “sono ragioni che garantiscono anche una risposta che deve essere in grado di avere requisiti diversi da una semplice copertura assicurativa”.10
La individuazione appunto dei livelli essenziali delle prestazioni dovrà garantire modelli regionali differenziati di sanità all’interno di un sistema che ha l’obbligo di riconoscere il giusto valore alle diversità territoriali (e, considerati i sensibili flussi immigratori, anche quelle etniche-razziali!) e di garantire la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini. Da qui l’esigenza di consentire che i provvedimenti che dovranno fissare i livelli essenziali delle prestazioni non siano espressioni di scelte unilaterali, bensì il risultato di accordi intervenuti con le Regioni e, comunque, in un contesto fortemente rappresentativo delle autonomie locali. Tutto ciò metterà anche a confronto la capacità progettuale in materia sanitaria delle Regioni le quali, dopo la rilettura organica della codificazione esistente dell’intero comparto, avranno l’opportunità ed il dovere di emanare, nel tracciato delle proprie competenze, i necessari provvedimenti normativi attraverso i quali riorganizzare complessivamente i loro sistemi sanitari, sì da adeguarli alle loro peculiari esigenze ed alla loro realtà socio-territoriale. Lo screening non sarà facile, i provvedimenti legislativi da sottoporre ai “riesami” regionali saranno numerosissimi, a cominciare dalla riforma ter; così come non sarà facile evitare, in proposito, il sopravvenire di un contenzioso costituzionale sui conflitti di competenza che certamente sorgeranno tra Autorità centrale e Regioni. Alla Corte, quindi, sarà affidato il compito di definire la materia da riesaminare e la parte da riscrivere nelle sedi istituzionali periferiche alla luce della riforma costituzionale intervenuta.

La sussidiarietà orizzontale.

La stessa legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 ha ridisegnato l’assetto dei rapporti tra Stato e società civile, rivisitando la ripartizione delle competenze pubbliche nella gestione dei servizi e delle prestazioni necessarie ai cittadini. L’articolo 118 introduce nella Carta un ulteriore elemento di grande novità: costituzionalizza il principio di sussidiarietà. Tale principio, di originaria estrazione comunitaria (articolo 5 del TCE), è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’articolo 4, comma 3, della legge n. 59/97 a proposito dei conferimenti delle funzioni e dei compiti amministrativi da parte delle Regioni agli Enti locali, principio anche esteso dal medesimo provvedimento legislativo ai rapporti tra Stato e Regioni ed ancora tra Stato ed Enti locali, sempre per quanto attiene la distribuzione delle funzioni e dei compiti amministrativi.
A ben vedere il principio introdotto dalla precisata legge ordinaria è riconducibile alla cosiddetta sussidiarietà verticale, ovverosia il principio secondo cui le funzioni amministrative devono essere il più possibile verticalizzate, fino a raggiungere le Autorità territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati.
Come vediamo, il principio introdotto è di ordine e contenuto “dinamico” e non di ordine e contenuto “statico”, nel senso che non si preoccupa di definire quale è l’Autorità “finale” competente all’esercizio della funzione, la cosiddetta autorità sussidiaria che diventa titolare dell’azione dell’Autorità sussidiata, bensì indica il percorso che bisogna effettuare al fine di confermare le competenze in capo alla autorità storicamente preposta ovvero, alternativamente, di “sussidiarla” con altre autorità verticalmente sottoposte, alla quale viene riconosciuta una maggiore “idoneità” territoriale a svolgere la funzione amministrativa delegata. Alla sussidiarietà verticale è dedicata la lettera del primo comma dell’articolo 118 della Costituzione.
Con tale disposto viene affermata la potestà amministrativa tendenzialmente generale dei Comuni, salvo il conferimento – al solo scopo di assicurare l’esercizio unitario delle funzioni amministrative – alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni ed allo Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. La grande novità riguarda però l’introduzione costituzionalizzata del principio di “sussidiarietà orizzontale”. Ad introdurla è stato il quarto comma del medesimo articolo 118 che recita: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Nel suo significato, la sussidiarietà orizzontale afferma il principio secondo il quale lo Stato interviene solo quando l’autonomia della Società diventi inefficace, promuovendo e valorizzando così la creatività del singolo e delle formazioni sociali, ai quali viene riconosciuta capacità di iniziativa.
La particolarità di tale principio è soprattutto quella di identificazione che l’articolato fa dei soggetti protagonisti; non più autorità pubbliche con competenze diverse e territorialità identificate, bensì due soggetti geneticamente ben distinti nell’esercizio del loro rispettivo ruolo esercitato nell’organizzazione sociale: da una parte, i soggetti pubblici, o meglio i poteri pubblici (Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni); dall’altra, i soggetti privati, singoli ovvero associati, interessati più o meno economicamente al fenomeno della erogazione dei servizi, di quei servizi tradizionalmente assicurati dal sistema rigorosamente pubblico e, pertanto, i privati titolari-proponenti di iniziative economiche di interesse generale.
E’ qui interessante comprendere il qualitativo che costituisce la differenza con il principio di sussidiarietà introdotto dal primo comma, ovverosia il significato di “orizzontale”, che caratterizza tale principio. Per meglio soddisfare questa necessità conoscitiva è d’obbligo assumere in prestito quanto affermato al riguardo dalla dottrina più autorevole11 : “si usa l’espressione orizzontale non perché tra tali soggetti vi sia parità (anzi, essi per definizione non sono paritari), ma perché si immagina che l’intera vita associata sia divisa orizzontalmente tra azioni dei privati (in piena autonomia) e azioni dei poteri pubblici (che ovviamente coinvolgono i privati), con la conseguenza che, se si applica il principio di sussidiarietà, ogni tipo di azione rientrante nel dominio del principio spetta in via prioritaria agli individui, singoli o associati, e solo in via sussidiaria ai pubblici poteri (ai quali eventualmente può poi applicarsi il principio di sussidiarietà verticale)”.
Secondo parte della dottrina, “il principio di sussidiarietà, inteso in questa accezione più ampia, come chiave di volta del rapporto fra pubblico e privato, è ‘regredito’, pertanto, a mera clausola di salvaguardia delle autonomie sociali, o di impegno dello stato e degli enti territoriali a promuoverne e favorirne l’accesso allo svolgimento di compiti di rilevanza sociale: un elemento di sussidiarietà orizzontale, potrebbe dirsi, non indirizzato in via prioritaria alla salvaguardia di spazi di ‘libertà provata’, ma piegato essenzialmente in funzione della costruzione di un’amministrazione ispirata ai principi di partecipazione e di trasparenza, di una democrazia che si sviluppa ai livelli più vicini dei cittadini”12 . La medesima autorevole dottrina, nella stessa relazione già evidenziata in note, pone l’accento sull’interpretazione del “favoriscono”, che è poi la vera novità di cui l’articolo 118 della Costituzione si fa veicolo normativo.
Sarebbe stato quantomeno “stravagante” e pleonastico introdurre, però, questo quarto comma se il legislatore, del più nobile rango, avesse semplicemente voluto significare con il “favoriscono” la sola facultas dell’autorità pubblica di poter “favorire” il privato, nel senso di poterlo rendere destinatario di risorse finanziarie, a qualunque titolo, ovvero a corrispettivo di attività giudicate di interesse generale.
Ciò è stato da sempre consentito e, a dire il vero, abbastanza frequentato nei comportamenti tenuti dalla pubblica amministrazione (basti pensare agli innumerevoli contributi elargiti in favore di soggetti privati per iniziative di carattere culturale, sportivo e fieristico). Se questa fosse stata la ratio della norma, il legislatore costituzionale si sarebbe scomodato davvero per poco o, meglio, per nulla! L’interpretazione interessante da un punto di vista giuridico della novità introdotta, tanto rilevante da giustificare un impegno da “costituente”, sembrerebbe essere quella di intendere l’affermazione “favoriscono” nel senso che “debbono favorire”, intendendosi con questo l’obbligo per i pubblici poteri – nell’elaborazione dei propri atti di indirizzo e nell’esercizio della loro attività amministrativa- di privilegiare “l’autonoma iniziativa” del privato per lo svolgimento anche delle attività istituzionali funzionalmente “delegabili” o meglio “sussidiabili”. Un “dover privilegiare” l’iniziativa del privato significherebbe imporre l’onere alla pubblica amministrazione della motivazione in caso di mancato riconoscimento del relativo favore al privato nell’esercizio dell’attività di interesse generale (per esempio la non adeguatezza quali-quantitativa del medesimo allo svolgimento dell’attività stessa), ovvero di motivare gli atti normativi che non regolamentassero in senso favorevole alla “collaborazione” con il privato. Tutto ciò stravolgerebbe (e stravolgerà) gli attuali comportamenti della pubblica amministrazione e, con essi, il rapporto tra pubblico e privato.
La nostra tesi è quella di condividere l’interpretazione appena accennata, quasi come se il legislatore di alto rango avesse voluto, con la terminologia usata, istituzionalizzare l’ingresso, tanto da introdurlo a regime quasi ordinario, di un altrettanto novello strumento giuridico-procedurale, molto in uso nell’organizzazione della Salute, in quanto introdotto con il decreto legislativo n. 502/92: l’accreditamento.
Esso è, infatti, ritenuto oggi come il “principio fondante dei nuovi rapporti pubblico-privato”, lo strumento attraverso il quale il legislatore ordinario ha ritenuto di affidare, nella organizzazione della Salute, la realizzazione del processo di aziendalizzazione e, con essa, il miglioramento qualitativo delle prestazioni sanitarie offerte ai cittadini-utenti. Dall’analisi coordinata delle fonti normative che hanno introdotto e regolamentato tale istituto13, della Giurisprudenza costituzionale intervenuta sull’argomento14, che ne ha offerto una definizione dinamico-sostanziale, nonché della funzione che a tale istituto è stata affidata anche negli atti di programmazione sanitaria15, con la lettera del quarto comma dell’articolo 118, emerge che l’accreditamento si propone come il percorso preordinato per la selezione ovvero l’individuazione di quella “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati”, cui la Pubblica Amministrazione deve fare riferimento e “sussidiare”, salvo diniego motivato, lo svolgimento di attività di interesse generale. Uno strumento, dunque, di selezione che, seppure con diversi gradi di severità16, abilita i cittadini accreditati, singoli e associati, a rivendicare quel ruolo economico “collaborativo” – per quel che ci riguarda – nel sistema della Salute, ruolo operativo che il nuovo dettato costituzionale sembra riconoscergli, dal momento che pone la Pubblica Amministrazione nella condizione di doverlo favorire. E’ appena il caso di soffermarci sulla tematica della “sussidiarietà orizzontale e sanità”17.
Il problema interpretativo che pone il dettato del quarto comma dell’articolo 118 in materia di organizzazione della Salute è soprattutto quello di “individuare i poteri privati in materia di sanità”, o meglio di come si tutela, rispetto all’intervento pubblico, la “autonoma iniziativa privata”, sia essa profit che non profit.
Evitiamo in questa sede di soffermarci sul tema abbastanza dibattuto8 dei rapporti tra la solidarietà, e le sue forme di collaborazione reale, e la sussidiarietà, perché esula dalla odierna analisi; cogliamo l’occasione per riaffermare che il soggetto privato, preso in considerazione dall’articolo 188, è comunque anche quello che si propone molto spesso per svolgere nell’assoluta gratuità un’attività volontaria di sicuro interesse generale e collettivo.
Ciò è molto in uso nel “mercato” della Salute – tanto da rappresentare una componente economica positiva della quale tener conto nei budget di spesa per la sua neutralità assoluta – proprio perché in tale campo il ruolo del volontariato specifico è stato da sempre massiccio; un ruolo che sta via via crescendo per le sollecitazioni che da ogni parte arrivano in tema di solidarietà (basti pensare al solo settore dell’assistenza domiciliare in favore dei disabili e dei malati terminali). L’autorevole dottrina alla quale facevamo riferimento, e dalla quale riteniamo sia molto difficile discostarsi per la qualità che essa ordinariamente esprime, precisa sul piano interpretativo che in forza del sopravvenuto dettato costituzionale – quello che introduce la sussidiarietà orizzontale – viene codificata una ampia forma di tutela dell’attività sanitaria dei privati, tutela specifica intesa “nel senso che non può essere vietata”.
Tale affermazione fa porgere all’Autore19 una serie di interrogativi che riteniamo di riportare integralmente per offrire a chi legge, ma soprattutto a chi scrive, l’opportunità di comprendere la reale portata del comma 4 dell’articolo 118 in tema di Salute:
- il primo –
“La Costituzione vuole che la Sanità, a parte la cura degli indigenti, sia svolta soltanto dai privati oppure ammette che siano anche gli enti pubblici a svolgere attività sanitaria?”;
- il secondo –
“Posto che esiste ed è garantita una assistenza sanitaria offerta dai privati, il potere pubblico, se intende garantire gratuitamente tale assistenza, deve rivolgersi al mercato o comunque ai privati che offrono tale servizio, ovvero deve invece organizzare tale assistenza con sue strutture, oppure ancora è libero di scegliere tra le due modalità?”;
- il terzo –
“Può il potere pubblico sostituirsi senza limiti ai privati nell’attività sanitaria oppure, in forza del principio di sussidiarietà, ha sì il potere di sovvenzionare coloro che ne hanno bisogno, rendendo gratuita o semigratuita per loro la prestazione sanitaria, ma deve offrire la prestazione attraverso l’attività dei privati?”.
E qui il Rescigno offre la soluzione, soluzione che riteniamo di condividere in aderenza anche a quanto abbiamo avuto modo di affermare in tema di caratterizzazione del principio della sussidiarietà.
La risposta agli interrogativi è insita nella peculiarità dinamica-procedurale del principio esaminato. Il principio della sussidiarietà orizzontale non è autoapplicabile, nel senso che non fornisce direttamente una risposta ai problemi. Egli si limita ad indicare un iter ottimale per il tramite del quale i pubblici poteri arrivano a garantire all’utenza la migliore attività sanitaria ottenibile, indipendentemente se erogata dai privati sussidiari ovvero direttamente dalle strutture pubbliche sussidiabili.

Ettore Jorio
Professore a contratto
Università della Calabria

NOTE

1 Cfr. Legge Costituzionale n. 3 del 18 gennaio 2001;
2 Cfr. G.U. RESCIGNO, in “Stato sociale e principio di sussidiarietà”, relazione tenuta a Genova il 25 gennaio 2002;
3 Cfr. G. CILIONE, in “Brevi note sulle prospettive della disciplina della tutela della salute dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001”, in Giustizia amministrativa, n. 12-2001;
4 Una prima applicazione dell’articolo 117 la si ricava dalla lettera dell’articolo 3 del DL n. 347 del 18 settembre 2001, convertito con la legge n. 405 del 16 novembre 2001. Tale provvedimento aggiunge il comma 2bis all’articolo 19 del DL n. 502/92 e con esso esclude dalle competenze legislative dello Stato le materie di cui all’articolo 4, comma 1-bis, in tema di “Aziende ospedaliere e presidi ospedalieri”, e dell’articolo , comma 9-bis che si occupa delle sperimentazioni gestionali. Quanto invece alla individuazione dei livelli essenziali si renderà necessario un esame valutativo di carattere congiunto Stato/Regioni, utile ad identificare il confine oltre il quale cessa “l’essenzialità” delle prestazioni.
5 Cfr. N. DIRINDIN, in “I livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e sociali”, in seminario di approfondimento “I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) nella Costituzione. Doveri dello Stato, diritti dei cittadini”, 12 marzo 2002, Roma;
6 Cfr. S. PANUNZIO, in “Modifiche al Titolo V della Costituzione e livelli delle prestazioni civili e sociali”, in seminario riferito in nota precedente;
7 Cfr. S. PANUNZIO in op. cit.
8 Cfr. V. CERULLI IRELLI, in “La cittadinanza sociale. Leggi e Politica”, in seminario già riportato;
9 N. DIRINDIN, in op. cit.;
10 N. DIRINDIN, in op. cit.; L’Autore sostiene che il DL n. 229/99 può essere inteso come una “cornice di primi principi fondamentali per la definizione dei livelli”. Esso, invero, stabilisce i principi fondamentali in base ai quali il Servizio Sanitario Nazionale deve garantire i livelli di assistenza alla popolazione: principio della dignità della persona, bisogno della Salute, equità nell’accesso all’assistenza, principio della qualità delle cure e della loro appropriatezza, principio dell’economicità delle risorse. Il provvedimento legislativo individua le tipologie dell’assistenza: prevenzione, assistenza distrettuale ed assistenza ospedaliera. Il DL n. 229/99 specifica, altresì, i criteri di esclusione delle prestazioni dai livelli di assistenza:
a) non rispondenza ai principi fondamentali ovvero ai reali bisogni di salute;
b) non appropriatezza alla specifiche esigenze della Salute, alle esigenze cliniche ovvero al principio di economicità;
11 G. U. RESCIGNO, in “Stato sociale e principio di sussidiarietà”, in relazione tenuta a Genova il 25 gennaio 2002;
12 Cfr. P. RIDOLA, in “Il principio della sussidiarietà e la forma di stato di democrazia pluralistica”, in A. A. Cervati, S. P. Panunzio e P. Ridola in “Studi sulla riforma costituzionale”, G. Giappichelli Editore Torino, 2001, pagg. 194-195;
13 DL n. 502/92; DL n. 517/93; dpr 14 gennaio 1997; DL n. 229/99;
14 Le sentenze della Corte Costituzionale che si sono interessate, a diverso titolo, dell’accreditamento sono state la n. 355/93, che ha dichiarato la sua legittimità, e la n. 426/95. Con quest’ultima sentenza la Corte ha precisato il significato dell’accreditamento definendolo: “un’operazione da parte di un’autorità o istituzione (nella specie la Regione) con la quale … escludendo in radice una scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione, si riconosce ad un soggetto il possesso di requisiti prestabiliti (strutturali, tecnologici e organizzativi minimi, a tutela della qualità e della affidabilità del servizio-prestazioni, in modo uniforme a livello nazionale per strutture erogatrici) stabiliti con atto di indirizzo e coordinamento”. In sostanza, la Corte ha così riconosciuto un diritto all’accreditamento delle strutture in possesso dei requisiti ed ancorando l’accreditamento al possesso di requisiti minimi prestabiliti a tutela della qualità e della affidabilità delle prestazioni in modo uniforme a livello nazionale… Come si desume dal ragionamento della Corte costituzionale nella sentenza sopra riportata, il legislatore ha voluto inserire le strutture private nel SSN al pari di quelle pubbliche (C. ANNICCHIARICO, op. cit., pag. 123)
15 Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1994-1996;
16 Cfr. M. BRUSONI-F. FROSINI, op. cit., pag. 139;
17 Cfr. G. U. RESCIGNO, op. cit., pagg. 16-19;
18 Cfr. I. CAVICCHI, op. cit., pag. 46-48;
19 Cfr. G. U. RESCIGNO, op. cit., pag. 18;