Sezione Medicina

Valeria Perucca, antropologa e psicologa clinica, analizza le possibili cause del declino della credibilità che ha colpito il settore medico-scientifico.

Negli ultimi decenni gradualmente ma in modo incontrovertibile si è fatta sempre più “scienza” (non che prima non lo fosse) utilizzando via via ciò che la biochimica, la biologia molecolare, la fisica e la robotica potevano fornire in ausilio alla diagnostica, alla terapia e alla prevenzione grazie allo screening ed ai vaccini. L’analisi statistica ha perfezionato l’epidemiologia, la metodologia sperimentale ha consentito un iter di accertamento clinico dei farmaci in grado di testare effettivi risultati, passibili di dimostrazioni accettate dalla Comunità Scientifica Internazionale in quanto duplicabili e verificabili anche in differenti contesti da quello di partenza.

La spettacolarizzazione di ciò che la medicina fosse in grado di offrire, iniziò con l’era dei trapianti ma proseguì con la neuroimaging ed il nuovo fronte di fisioanatomia generato dalle neuroscienze che offrono anche nuove domande e orizzonti di ricerca (mi riferisco agli studi di Le Doux, Tononi, Edelman, Talese, Domasio per citare quelli più noti), alle terapia di rianimazione, alla microchirurgia coadiuvata da tecnologie informatiche, alle tecniche di fecondazione in vitro, alla terapia del dolore, alle recenti applicazioni oncologiche delle cure immunologiche, alla genetica e alla decodificazione del genoma, che offre nuove possibilità sia per la cura che per la prevenzione di alcune patologie, sia per migliorare la qualità e la durata della vita.

A fronte di concreti progressi tangibili ed accessibili in grande parte dei paesi occidentali, la natura “sofisticata” del sapere medico, ha offuscato e spesso ignorato il lato taumaturgico dell’arte e dell’esercizio clinico, l’impatto profondo e oscuro che la malattia ed il dolore operano nelle nostre esistenze fragili, sempre meno “attrezzate” sotto il profilo spirituale, religioso ed etico rispetto il “senso ultimo” di sé e del mondo.

Ciò genera irrealistiche ed esagerate aspettative e richieste alla scienza medica, affidandole un implicito e inconscio compito “miracolistico” che non è in grado per sua natura di assolvere.

Crediamo che origini proprio da questa “delusione” la diffidenza, l’ostilità quando non il disprezzo per la medicina allopatica a favore di una ricerca “alternativa” che recupera sì percorsi “tradizionali” (quali quella cinese o ayurvedica, fitoterapica, chiropratica) ma molto più spesso affonda e approda nel folklore popolare e “magico” nel tentativo malriuscito di recuperare quel legame col sacro e con la natura, che il sapere medico ha da sempre sussunto in sé traducendolo in una “relazione particolare” tra medico e paziente che sta purtroppo scomparendo ma che è altrettanto necessaria perché un iter di guarigione sia completo.

Nella polarità tra razionalità, sperimentazione accertabile e occulto incantesimo, l’esercizio clinico si misura e si interroga su limiti e insuccessi, su zone oscure, fallibilità e inefficacia.

E se i due estremi esorbitano dalle finalità e dall’appropriatezza della cura, essa rimane pur sempre legata all’umana limitatezza e all’inafferrabile labilità e precarietà dell’esistenza.

La complessità sofisticata con cui opera oggi la disciplina medica utilizza una strumenta­zione ed un linguaggio spesso incomprensi­bile ai pazienti e ai famigliari, creando incon­sapevolmente un disorientamento e un ti­more che trasformano tutto ciò che è igno­rato in un atteggiamento difensivo e ostile.

Mancando la funzione di traduzione di dia­gnosi e terapie in termini comprensibili da parte dei medici, chiamati comunque ad una funzione “pedagogica” anche se non espressamente richieste dal codice deonto­logico, si apre in tal modo la strada alla de­riva (per usare una metafora di navigazione) nei confronti della medicina allopatica, affa­scinati da altri approcci che invece valoriz­zano la natura “personale” della patologia, il suo legame con la biografia e il contesto di vita del malato.

Dimenticare, trascurare o ignorare una “rela­zione terapeutica” che esplicita rischi e be­nefici in termini comprensibili e concreti, aliena la medicina da se stessa, confinandola in una scienza dura, elitaria e astratta.

Una seria ed efficace campagna di alfabetiz­zazione della medicina in ogni sua specialità (che non la banalizzi ma la renda percepibile soprattutto nelle sue dimensioni di rischio e impotenza) condurrebbe ad una reale condi­visione di responsabilità fra medico, paziente e famigliari riducendo la problematica dei contenziosi nonché le ricadute negative della medicina difensiva, che si sottrae a tentativi estremi e incerti di intervento (spesso salva­vita) pur di evitare drammi, processi e risarcimenti.

Occorre che l’esercizio clinico recuperi e valorizzi la sua natura esclusiva di servizio alla “cagionevolezza” umana, all’impatto psicologico e alle conseguenze concrete dei limiti che impone una patologia al paziente e al suo contesto famigliare e sociale.

Le motivazioni di una scelta professionale così complessa e difficile non si pongono solo agli inizi degli studi ma si ripropongono lungo una carriera né prevedibile né scontata, laddove oltre l’aggiornamento scientifico, si richiede un’elaborazione dei contenuti umani ed esistenziali che si intrecciano ad un operare denso di responsabilità, domande e destino.

Valeria Perucca

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