Le Dottoresse Antonietta Mariniello e Milena De Cenzo, insieme al Dottor Alberto Vito, aprono una finestra sugli effetti psicologici della recente pandemia COVID da uno dei punti più caldi: l’Ospedale Cotugno di Napoli.
Sono trascorsi diversi mesi da quando il nuovo Coronavirus è entrato a far parte delle nostre vite e da quando, a maggio, abbiamo cominciato a sperimentare la vera e propria “fase di convivenza” con il virus e, dunque, con il rischio di contrarre l’infezione.
Dallo spaesamento iniziale, dovuto all’improvvisa diffusione di un virus ignoto, siamo passati, in poche settimane, alla fase dell’isolamento, il cui obiettivo era quello di contenere l’epidemia ed evitare che il COVID-19 prendesse il sopravvento sulla capacità di farvi fronte del Sistema Sanitario.
Di contro, tale isolamento ha tracciato una linea di demarcazione netta tra lo spazio dell’epidemia, rappresentato dall’incontro con l’altro nel mondo esterno, e quello della propria abitazione, dove era possibile vivere al sicuro, lontano da ogni rischio. Dunque, si è venuto a delineare un confine tra un esterno vissuto come pericoloso ed incontrollabile ed uno interno sicuro, limitato e controllabile.
A tal proposito Vittorio Lingiardi, medico psichiatra, psicoanalista e ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, afferma in una sua intervista: “il nostro sistema affettivo e simbolico si è improvvisamente ribaltato, ci siamo trovati di fronte ad una situazione paradossale in cui la distanza, la chiusura erano l’unico modo per responsabilizzarci di fronte alla collettività; a ciascuno di noi è stato chiesto di compiere il grande salto mortale di imparare ad essere vicini allontanandoci, di proteggerci separandoci”.
Lingiardi utilizza la finestra come oggetto simbolico della pandemia, affermando anche che: “la finestra è quell’oggetto simbolico che ci ha consentito di vivere meglio in questa fase perché rappresenta il confine tra mondo esterno e mondo interno, che ci permette di vedere fuori sentendoci protetti… la finestra può essere aperta, chiusa o anche socchiusa”.
I rapporti sociali, dunque, sono cambiati e non sappiamo ancora per quanto tempo saranno necessarie modifiche al nostro comportamento quotidiano, così come non è possibile dire con esattezza quanto tutto ciò modificherà i nostri assetti psicologici.
Contemporaneamente stiamo assistendo ad un ribaltamento di senso delle rappresentazioni sotto diversi aspetti.
Il primo degli aspetti specifici di questa malattia è che noi abbiamo a che fare con un pericolo invisibile e che tutti, quindi, sono potenzialmente portatori del contagio, visto che molti pazienti sono anche asintomatici.
Un altro paradosso, come si accennava, è che i comportamenti che ci sono stati e che ci vengono tuttora suggeriti e prescritti come comportamenti adeguati, come l’isolamento, il mantenere le distanze, il non abbracciarsi, sono sempre stati considerati comportamenti preoccupanti e disfunzionali.
Un altro esempio è rappresentato dai social, che fino a qualche tempo fa sono stati per molti aspetti demonizzati o comunque criticati, e che invece si sono rivelati molto preziosi per mantenere una dimensione sociale nella collettività. È emerso quanto questi strumenti siano stati utili ad aiutarci a sentirci meno soli ed isolati, e potrebbe darsi che in futuro comunicheremo sempre di più attraverso il filtro della tecnologia.
Finanche la comunicazione di massa ha subito dei cambiamenti: si pensi alla potenza dell’immagine del Papa che parla ad una piazza vuota. In passato la propaganda puntava alle folle oceaniche e alle piazze piene. Oggi la potenza comunicativa è data dal vuoto e non dal pieno.
Siamo di fronte a repentine variazioni di prospettiva e di attribuzione di senso e non è ancora ben chiaro quali saranno i loro effetti psicologici a lungo termine.
Tra tutti questi cambiamenti forse l’unica costante che fa da sfondo alla nostra quotidianità è un senso di incertezza: c’era incertezza nella fase di isolamento e continua ad esserci oggi nella fase di convivenza e di ripresa. Dopo il vuoto dell’isolamento sicuro, ora ci stiamo confrontando con un pieno di rischio e angoscia in cui la citata demarcazione tra ambiente esterno, pericoloso, e quello interno, sicuro, viene messa a dura prova. Ci stiamo rendendo conto che non è più possibile chiudere la porta di casa e lasciare dietro di sé il pericolo. Alcuni addirittura parlano della possibilità di creare una “zona cuscinetto” o dei percorsi “sporco e pulito” nella propria abitazione, mutuando le efficienti pratiche di contenimento degli ambienti sanitari. Abbiamo cominciato, con gradualità, ad uscire di casa, a recarci a lavoro o dalle persone care, guadagnando una libertà sempre più ampia. Al contempo, sia a livello istituzionale che personale, stiamo mettendo a punto diverse misure di sicurezza: dalle mascherine ai plexiglas e alle visiere, dalla disinfezione continua delle mani e delle superfici alla misurazione della temperatura in luoghi pubblici. Se è forte il desiderio di riprendere a progettare, è altrettanto forte la paura di contagiarsi. Inoltre, se da un lato siamo quotidianamente bombardati da informazioni riguardanti il Covid, dall’altro tali informazioni risultano spesso contrastanti o comunque poco certe. Tutto ciò contribuisce a rendere sempre più complesso e ansiogeno il quadro generale. L’incertezza è legata all’invisibilità del pericolo, ma anche all’imprevedibilità e all’incontrollabilità della sua evoluzione e durata nel tempo: Quando finirà tutto questo? Per quanto tempo ancora dovremmo portare le mascherine? Quando uscirà il vaccino? Che cosa succederà quest’inverno con l’arrivo dell’influenza stagionale? Quando potremo tornare a viaggiare?
Queste sono solo alcune delle domande che almeno una volta negli ultimi sei mesi ognuno di noi si è posto.
L’inconsistenza delle risposte che ci vengono date sta sviluppando in noi una forte intolleranza all’incertezza con inevitabili ripercussioni a livello cognitivo, emotivo e comportamentale (Carleton, 2016).
“L’incertezza è legata all’invisibilità del pericolo, ma anche all’imprevedibilità e all’incontrollabilità della sua evoluzione e durata nel tempo: Quando finirà tutto questo?” Per quanto tempo ancora dovremmo porta-re le mascherine? Quando uscirà il vaccino? Che cosa succederà quest’inverno con l’arrivo dell’influenza stagionale? Quando potremo tornare a viaggiare? |
La messa in atto di meccanismi di difesa primitivi quali rimozioni (tornare il prima possibile alla normalità), negazioni (“il virus non c'è più”), proiezioni più o meno paranoidee (“con la scusa del virus ci stanno fregando”), sono solo alcuni esempi di come l’uomo reagisce all’incertezza, cercando di eliminarla o di ridurre il disagio legato ad essa. Altri esempi includono la ricerca quasi ossessiva di informazioni sull’evoluzione del COVID (attuata ad esempio mediante il costante monitoraggio di telegiornali, internet e social), oppure l’evita-mento di tutto ciò che possa esporre al rischio di contagio (si pensi ad esempio alla cosiddetta “sindrome della capanna”), fino ad arrivare all’adozione di condotte trasgressive o oppositive rispetto alle prescrizioni anti-COVID (alcune persone, ad esempio, ritengono che indossare le mascherine sia inutile o addirittura dannoso).
Tali comportamenti, da un lato consentono di tenerci a galla offrendoci la sensazione di avere maggiore sicurezza e controllo, dall’altro, però, rischiano di costruire una sicurezza illusoria incrementando il rischio di provare emozioni negative qualora qualcosa dovesse andare storto.
I rischi allora possono essere tanti: precipitare in sentimenti di inquietudine, solitudine, impotenza o di helplessness, intesa come perdita di fiducia nei confronti della possibilità di ricevere aiuto, da se stessi e dalle figure di riferimento (pubblico e privato);essere assaliti dalla sensazione di perdita di controllo di sé, accompagnata dal timore di essersi infettati o di poter infettare i propri cari, o ancora sospettare che l’altro possa essere infetto cronicizzando uno sguardo diffidente verso il prossimo, che facilmente si trasforma in sguardo rabbioso e altri ancora.
E allora cosa fare? È doveroso sottolineare come i vari meccanismi di difesa sopra citati, di per sé, possano essere funzionali e adattivi; una strategia comportamentale diventa infatti disfunzionale nel momento in cui viene impiegata in modo rigido, stereotipato ed indistintamente in diversi contesti.
Pertanto, è l’utilizzo costante e inflessibile di tali strategie a rappresentare un potenziale fattore di rischio per lo sviluppo di disagio psicologico e, a lungo termine, di psicopatologia.
Il ruolo di noi psicologi è quello di trasmettere l’importanza di imparare a tollerare l’incertezza.
Ciò implica uno sforzo individuale e collettivo di accettazione dell’ignoto, mantenendo al contempo un certo livello di attenzione, senza abbandonarsi a comportamenti superficiali o eccessivamente leggeri.
Un tale comportamento sembra avere un doppio ruolo: da un lato permette di tenere alla larga l’infezione, dall’altro aiuta a tutelare la percezione di essere al sicuro. In tal senso assume anche una funzione ansiolitica.
In definitiva, possiamo affermare che c’è molto da elaborare e ripensare e molte le domande da porci:
- Come si stanno inserendo questi aspetti nella dinamica di coppia o familiare?
- Come sta reagendo chi aveva una pregressa condizione psicopatologica?
- Come potremo, in quanto psicologi, considerare la già labile e discussa demarcazione tra comportamenti sani e comportamenti patologici?
Alcune di queste risposte sono ipotizzabili a partire dall’esperienza di chi ha contratto il virus ed ha affrontato il tortuoso percorso verso alla guarigione. Infatti, così come il plasma dei guariti potrebbe aiutare i contagiati, anche la loro esperienza di malati potrebbe essere utile a capire quali strategie mettere in campo per prevenire i rischi connessi alla salute psicologica delle persone, così da poter assicurare una migliore tutela del paziente e dei suoi familiari.
Dalla nostra esperienza clinica svolta all’interno dell’Ospedale di malattie infettive di Napoli “D. Cotugno” con le persone Covid positive ricoverate, è emersa prevalentemente una sintomatologia simile a quella del Disturbo post traumatico da stress associata ad ansia e attacchi di panico, insonnia e depressione.
Ciò che però ha destato la nostra attenzione è l’impatto del virus sulla sfera relazionale della persona: sembra che il non poter interagire con i propri cari sia l’aspetto più doloroso e difficile da gestire al punto che anche la certezza della famiglia sembra essere stata minata.
Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre una malattia “familiare”, sia perché investe i parenti che vivono a loro volta una condizione di forte stress, sia perché essi sono solitamente quasi sempre la risorsa più importante. Quindi, proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare, ma in questo caso si ammalano davvero interi nuclei familiari, genitori e figli, coniugi, fratelli e sorelle. Questo, è forse l’aspetto più toccante.
Le storie che abbiamo ascoltato sono tante, tutte purtroppo attraverso il filo del telefono, e da tutte si evince che l’isolamento dai propri cari, rappresentala dimensione più difficile da accettare. Il senso di impotenza derivante dal non poter consolare i familiari a casa anch’essi malati, o peggio ricoverati in altri ospedali, o semplicemente preoccupati per il congiunto ricoverato, diventa centrale.
Particolarmente intensa è stata la storia di un paziente, un professionista di media età, al quale occorreva comunicare telefonicamente la morte dell’anziano genitore avvenuta nello stesso ospedale a pochi metri di distanza. Tanto vicini quanto distanti. È stata una telefonata dai toni molto toccanti e intimi in cui il paziente ha potuto sperimentare il calore di una vicinanza umana seppur all’interno di una fredda e isolata stanza di degenza e si è sentito sicuro di raccontare momenti della propria vita, della propria famiglia, gli insegnamenti ricevuti e la sua “devozione” filiale. Lo psicologo, uno sconosciuto per il paziente, senza neanche mai essere stato visto in volto da lui, ha abbattuto il muro dell’isolamento e della solitudine, fungendo anche da trait d’union con i familiari a casa bloccati dalla difficoltà di comunicare la notizia al congiunto. Ciò ha permesso di iniziare un adeguato processo di elaborazione del lutto.
Questo è ciò che noi riteniamo un progetto volto al benessere psicologico: la persona è isolata, ma non è sola. Una semplice telefonata fa sentire i pazienti “pensati” e quasi coccolati dallo staff ospedaliero.
Mentre gli specialisti si occupano della cura della malattia, tutti insieme ci occupiamo del prenderci cura della persona. Noi psicologi diamo un contributo per aiutare tutti gli operatori sanitari a considerare persone i nostri pazienti.
Dott.ssa Antonietta Mariniello
Dirigente Psicologa A.O.R.N. dei Colli, Ospedale “D. Cotugno” - Napoli
Dott.ssa Milena De Cenzo
Dirigente Psicologa A.O.R.N. dei Colli, Ospedale “D. Cotugno” - Napoli
Dott. Alberto Vito
Responsabile U.O.S.D. Psicologia Clinica A.O.R.N. dei Colli - Napoli
Bibliografia
R.N. Carleton, Into the unknown: A review and synthesis of contemporary models involving uncertainty. Journal of Anxiety Disorders, 39, 2016.
V. Lingiardi e G. Giovanardi, Nuove evidenze e responsabilità con la fine del lockdown, www.argomenti.il sole24ore.com, 15 maggio 2020.
A. Vito (a cura di), Psicologi in Ospedale. Percorsi operativi per la cura globale di persone, Franco Angeli, Milano, 2016.