Continua l’osservazione della realtà ospedaliera durante l’emergenza COVID-19: quali sono gli effetti della pandemia sul personale sanitario?
La pandemia legata al COVID-19 ha posto innumerevoli e complesse sfide al Sistema Sanitario Italiano ed ha richiesto modifiche che hanno coinvolto tutti i livelli dell’assistenza sanitaria.
In tale situazione di grave criticità, è stata fortemente evidenziata la necessità della presa in carico anche degli aspetti psicologici, emotivi e relazionali sia dei pazienti sia degli operatori sanitari. Probabilmente è stata la prima volta che nel nostro paese, anche per ampi settori dell’opinione pubblica, è stata riconosciuta in modo unanime l’importanza della salute psicologica come parte essenziale della qualità di vita, in qualsiasi età ed in tutte le fasi del ciclo esistenziale.
A sette mesi circa dall’inizio dell’emergenza COVID, tuttora in corso, è possibile proporre alcune riflessioni su questa complessa e difficile esperienza. In un precedente articolo (Leadership Medica: http://bit.ly/LMCOVID385) abbiamo presentato alcune considerazioni concernenti il vissuto psicologico dei pazienti e dei loro familiari nonché quelle riguardanti le rappresentazioni sociali ed il vissuto psicologico per l’intera collettività, sia durante la “fase di chiusura”, sia durante questa “fase di convivenza” con il virus. Nel presente articolo ci proponiamo, invece, di riflettere su alcuni aspetti che colpiscono il benessere psicologico dei professionisti sanitari, sottoposti ad una pressione sociale e psicologica che si sviluppa su tempi ormai non definibili e che, purtroppo, si profilano sempre più lunghi.
Un primo ed imprescindibile aspetto di questa crisi è rappresentato proprio dal fattore “tempo”. Il prolungarsi dell’emergenza sanitaria, infatti, può comportare una cronicizzazione dello stress legato al lavoro, che, quando prolungato nel tempo e accompagnato da elevata intensità, può determinare un esaurimento delle risorse fisiche e psicologiche ed in alcuni casi favorire l’emergenza della sindrome del burn-out e la comparsa di disturbi psicologici e/o psichiatrici anche a lungo termine.
Il burnout, definito “patologia della relazione di aiuto” (Galam, 2007), è uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale dovuto ad un coinvolgimento, a lungo termine, in situazioni lavorative che comportano alte richieste sul piano emotivo e fisico. Il burnout è definito da tre dimensioni tra loro interrelate: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e scarsa soddisfazione personale, che si manifestano attraverso una diminuzione dell’interesse nel proprio lavoro e nel benessere del paziente, una minore comunicazione e ad una perdita di un’attitudine attiva verso il mondo esterno.
Tale stress occupazionale cronico ha, dunque, forti implicazioni sia personali che interpersonali.
Sebbene tale termine sia ormai diffuso ed entrato nel linguaggio corrente, pochi ricordano che in effetti tale patologia lavorativa riguarda “esclusivamente” lavoratori che inizialmente hanno avuto un forte investimento positivo verso il proprio lavoro. Successivamente, quasi sempre per ragioni organizzative e legate al rapporto con i colleghi, sia in posizione gerarchicamente superiore, che paritaria o subordinata, tale investimento si riduce e si subisce una sorta di disillusione accompagnata da malessere che, in alcuni casi, può giungere a livelli profondi. In sostanza, quindi, una persona che non è mai stata fortemente motivata al lavoro non potrà mai subire burnout.
Il Personale sanitario è coinvolto a diversi livelli nella gestione dell’emergenza sanitaria, molti in prima linea e tutti esposti ad un pericolo che non si può vedere e che quindi si fatica a fronteggiare. Tutti temono in qualche misura di essere contagiati e di contagiare i propri cari, compagni, figli, genitori.
L’Ospedale Cotugno di Napoli, sin dai primi giorni dell’emergenza Covid, oltre a fornire supporto psicologico telefonico ai pazienti ricoverati e alle loro famiglie, ha attivato un servizio di consulenza psicologica telefonica rivolta sia agli operatori sanitari che alla cittadinanza, in collaborazione con la Croce Rossa di Napoli.
La nostra proposta è stata quella di istituire un servizio di supporto telefonico, finalizzato alla diffusione di corrette informazioni rispetto al Coronavirus e al sostegno psicologico di quanti ne sentissero l’esigenza, pensando che fosse importante collaborare e creare sinergie tra due istituzioni in prima linea nella lotta al Covid: il Cotugno e la Croce Rossa, con il suo bagaglio storico di esperienze anche nel campo della psicologia dell’emergenza.
Inoltre, abbiamo deciso di raccogliere le testimonianze di un piccolo campione di operatori sanitari dell’Azienda. L’obiettivo del lavoro è stato quello di far emergere il loro vissuto emotivo ed i loro bisogni per poter offrire loro un sostegno adeguato. Abbiamo concordato di adottare la formula narrativa discorsiva piuttosto che strumenti standardizzati chiusi.
Sono state realizzate interviste semi-strutturate ad alcuni operatori, con profili professionali diversi, le cui aree tematiche principali sono: il vissuto personale, la vita familiare, i rapporti con i colleghi, lo stigma sociale.
In linea con quanto emerso anche dagli altri lavori svolti finora sul territorio nazionale ed internazionale su questa complessa esperienza, tra i maggiori rischi per il benessere psicologico, gli operatori sanitari riportano:
- Il timore di contrarre l’infezione e di contagiare i propri cari
- La separazione spesso protratta dalla propria famiglia
- La sofferenza per la perdita di pazienti e di colleghi
- Cambiamenti nelle procedure di lavoro e nel rapporto con i pazienti
- Difficoltà di comunicazione con i pazienti sottoposti a ventilazione e necessità di fornire un maggiore supporto emotivo ai pazienti in isolamento
- Fatica fisica legata ai lunghi orari di lavoro e all’utilizzo dei dispositivi di protezione
Di seguito riportiamo degli stralci di interviste somministrate ad alcuni operatori sanitari dalle quali crediamo che si evinca in maniera più immediata quale possa essere il costo psicologico per chi lavora in prima linea:
Roberto, Medico:
Sono diverse le paure che ti porti dentro: una è la paura del contagio, ma forse è anche quella che superi prima, l’altra è la paura di portare qualcosa a casa. Possiamo dire che noi operatori viviamo una quarantena al contrario: bloccati in ospedale in orari senza controllo, con la paura di trasmettere qualcosa a chi ti aspetta e vive la sua quarantena reale a casa. Un altro tipo di paura che ti assale è quella dei pazienti, perché ti chiedono in continuazione: “Ce la farò? Mi aiuti, ho paura” e te lo dicono con le parole, ma anche con gli occhi! Questa forse è la paura più palpabile e più angosciante.
Massimo, Medico:
Ci siamo dovuti adattare nel curare i pazienti in modo completamente diverso rispetto alle nostre abitudini: non c’è più il contatto umano, limitato dalla visiera, da questo “scafandro”, dalle mascherine… i pazienti non riescono nemmeno a guardarci negli occhi. È molto frustrante per il medico, per me, ma anche per gli altri colleghi. L’abbraccio, la stretta di mano, la pacca sulla spalla sono tutte cose fondamentali per un rapporto umano…cose che ora non sono più possibili; unitamente all’alternarsi al letto del paziente per ridurre il rischio infettivo, per cui lo vedi un giorno e poi lo rivedi dopo quattro o cinque giorni. Anche questo inibisce la relazione col paziente, e non siamo abituati in tal senso.
Emilia, Coordinatrice infermieristica:
Cerchiamo di sostituirci ai familiari dei pazienti per compensare questa assenza e sì, sicuramente questo fa bene al nostro cuore. Non ci sostituiamo completamente perché l’affetto dei cari ovviamente è diverso, ma attraverso i cellulari, le videochiamate, le telefonate cerchiamo di far sentire la nostra vicinanza e di ascoltare i loro bisogni… io penso di essere cambiata tanto con questa esperienza.
Ogni operatore sanitario, che lavora nell’area dell’emergenza-urgenza, ha un livello molto alto di resilienza, ovvero la capacità di affrontare e superare eventi potenzialmente traumatici.
Questa è una capacità che ogni operatore ha sviluppato negli anni di professione avendo a che fare con emergenze, lutti e situazioni particolarmente gravi.
Roberto, Medico:
Quelli che io spesso identifico come la “gente del Cotugno”, ovvero medici, infermieri, operatori sociosanitari, guardie, psicologi e psichiatri, sono abituati alle grosse emergenze rispetto agli altri ospedali. Noi siamo abituati a fare una sanità di servizio, fungendo spesso da ammortizzatori sociali, e anche in questa situazione di emergenza ci siamo sentiti tutti parte di un qualcosa che stavamo andando a creare. Ho visto una pronta disponibilità da parte di tutti. Anche la Direzione Generale e Sanitaria hanno mostrato la loro disponibilità dando massima fiducia agli specialisti. È stato un continuo dire: “Diteci cosa vi serve, non vi preoccupate!”. In virtù di tale fiducia, abbiamo potuto creare percorsi, procedure e attività senza nessuna imposizione dall’alto. Credo che uno dei nostri punti di forza, ciò che ci ha permesso di fare squadra e di creare velocemente un nucleo operativo sul campo, sia stata propria la fiducia concessa a tutti noi operatori.
Vincenzo, Medico:
Compravo la Nutella per i pazienti per mascherare il sapore sgradevole dei farmaci… La storia in realtà è nata tanti anni fa con i pazienti HIV perché utilizzavamo un farmaco, che era in sola formulazione sospensione, dal gusto molto sgradevole, e noi per “ubriacare” le papille gustative utilizzavamo degli alimenti molto forti e la Nutella per addolcirne il sapore; ai pazienti facevamo mangiare la Nutella prima di somministrare loro il farmaco; uno dei primi farmaci che abbiamo utilizzato per il Covid è stato proprio questo farmaco, fuori dal commercio, e ho riproposto la Nutella come gesto di vicinanza e miglioramento della compliance.
L’emergenza da Coronavirus, tuttavia, sta comportando livelli di complessità che vanno oltre a ogni situazione vissuta precedentemente e questo ha avuto ed avrà una potente ricaduta emotiva e psicologica sui professionisti sanitari impegnati in prima linea.
Molti hanno sperimentato, anche occasionalmente o in modo transitorio, segnali da stress post-traumatico:
- disturbi del sonno
- difficoltà di concentrazione e di memoria
- irritabilità, irrequietezza
- confusione emotiva
- chiusura e isolamento
Sono maggiormente a rischio di sviluppare disturbi a lungo termine, come sintomi depressivi, ansia e insonnia, proprio coloro che lavorano in rianimazione e nelle terapie intensive, sottoposti ad uno stress psicofisico ed emotivo notevole perché più intensamente a contatto con la paura, l’angoscia di morte, la sofferenza fisica e psicologica.
Giusi , O.S.S.:
[...] è capitato ad una collega di circa sessanta anni, che inizialmente restava molto tempo nelle camere con i pazienti, era sempre molto attenta… un giorno però ha avuto un attacco di panico: si è vestita con la tuta ma si è subito spogliata, l’ho trovata in un angolo, rossa in volto, rannicchiata, affannava, e si chiedeva cosa le stesse succedendo [...]
Emilia, Coordinatrice infermieristica:
I primi giorni lavoravo per 12, anche 18 ore consecutive per organizzare il lavoro… Abbiamo capito che questa malattia era più grande di noi, una cosa sconosciuta, e abbiamo il terrore di ammalarci e di portarla a casa. Nella mia esperienza di lavoro con le malattie infettive non ho mai visto tanto dolore, tanta sofferenza tutta insieme… Ancora adesso non riesco a dormire bene, mi capita spesso di avere degli incubi, sogno di cadere da un posto alto, per cui non riesco mai a rilassarmi…
Gli operatori che lavorano in contesti in cui ci si fa carico della sofferenza acuta, sebbene formati e preparati a tollerare e affrontare situazioni molto complesse, sono comunque soggetti alla traumatizzazione vicaria, una condizione in cui l’empatia per l’altro comporta una sofferenza individuale significativa nel soccorritore, e quindi più esposti alla possibilità di sviluppare disturbi psicopatologici.
Il meccanismo che porta a sviluppare il fenomeno della traumatizzazione vicaria è proprio la presenza di una relazione empatica tra due persone. Per chi esercita una professione di aiuto e si trova a svolgere un lavoro prolungato con persone traumatizzate dal rischio di perdere la vita, come avviene esattamente nei contesti ospedalieri dedicati alla cura dei pazienti Covid, non è facile mantenere un atteggiamento di “neutralità”.
Giusi, O.S.S.:
Sono una persona molto empatica, al lavoro mi piace parlare con tutti, creo un rapporto stretto con i pazienti, alcuni colleghi mi dicono che sbaglio, che non devo esagerare. Io sono un operatore socio-sanitario, per il mio ruolo a volte le persone parlano più con me che con i medici, Sono io, a volte, la prima ad accorgermi di alcune cose che non vanno. Questo per me non è solo un lavoro, io sto bene. E ho avuto a che fare comunque con pazienti HIV, con malaria…Quando entro nelle camere dei pazienti con Covid cerco di sorridere sempre, accarezzo i pazienti, tengo loro la mano. Ricordo la prima volta che incontrai un paziente…era attaccato all’ossigeno e gli chiesi se potevo dargli la mano. Lui acconsentì e sospirò quando lo feci… I colleghi mi dicono di non farlo, ma io sono così, non riesco a non farlo.
Vincenzo, Medico:
Una situazione mi ha toccato profondamente… un nostro paziente non aveva più notizie del padre da diversi giorni, anch’egli ricoverato, mi sono informato ed ho saputo che alcuni giorni prima il papà era stato trasferito in rianimazione e purtroppo era finito. Considerando che il figlio fosse in condizioni disperate, per alcuni giorni gli ho tenuto nascosta la notizia. Si sa però che le bugie hanno le gambe corte e a volte mi capitava di contraddirmi quando mi chiedeva del padre e lui mi riprendeva facendomi notare gli errori… Non nascondo la mia sofferenza… (si commuove)
Il rapporto empatico con tali pazienti, come si evince dalle testimonianze degli operatori sanitari, può causare un cambiamento nel modo in cui l’operatore percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. L’operatore è testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione del proprio funzionamento psicologico che può avere ripercussioni negative sulla sua vita personale e professionale.
Questo tipo di trauma è stato studiato soprattutto nei periodi di guerra o durante catastrofi, come terremoti, incidenti aerei, grandi incendi, alluvioni Si tratta di situazioni che richiedono uno specifico addestramento ad agire in circostanze molto critiche, caratterizzate da scarsità di risorse umane e materiali, capacità di adattamento rapido a ciò che la situazione richiede, prontezza nel fare scelte dolorose.
Rosario, Coordinatore infermieristico:
Inizialmente è stato come un terremoto… ti guardavi intorno e non capivi quello che ti succedeva. Tornavamo alla realtà solo quando ci chiamavano per nome, perché lo avevamo scritto sulle tute, allora ci ridestavamo e facevamo ciò che c’era da fare.
I primi momenti erano attimi di buio: non respiravi, non parlavi, avevi paura di tutto, mi sembrava che ogni cosa potesse contagiarci.
All’inizio la paura è stata tanta per tutti, poi man mano ci siamo abituati, anche se la paura non passa mai. La cosa più raccapricciante per me è vedere persone che stanno apparentemente bene e poi, nel giro di due o tre ore, vengono intubate. E loro lo capiscono, perché gli viene detto che necessitano della ventilazione assistita. È la cosa più brutta che possa esistere, il dover chiudere gli occhi e non sapere di poterli riaprire, sia per loro che per chi li assiste. Questa è una cosa che credo mi segnerà per tutta la vita, penso che non la dimenticherò mai.
Roberto, Medico:
Sentendo ciò che stava accadendo nel mondo, abbiamo subito compreso che la situazione era di massima allerta per la sua gravità, e che bisognava prendere una posizione immediata per fronteggiarla. È emersa da subito la necessità di fare barriera: bisognava fare scudo! La mia idea iniziale era quella della testuggine romana, ovvero di fare blocco contro il virus: nella testuggine ognuno difende il settore che gli spetta per non fare entrare il nemico mentre l’altro ti guarda le spalle, e tu sai che l’altro sta lavorando con te e per te! E così ci siamo ritrovati tutti, e dico tutti, a creare una barricata, nessuno si è tirato indietro e questo è un aspetto importante nelle emergenze.
È inoltre frequente anche una forma di stigma sociale associato alla paura della popolazione di essere da loro infettati, aspetto purtroppo confermato da alcuni episodi accaduti anche nel nostro paese, tra cui anche il gravissimo episodio della vandalizzazione delle auto del personale sanitario a Rimini. Anche alcuni tra gli operatori sanitari intervistati hanno subìto comportamenti di tipo vessatorio:
Massimo, Medico:
Una volta al supermercato ho incontrato una collega, abbiamo cominciato a chiacchierare e le ho chiesto se avesse fatto il tampone. C’era una persona a distanza di circa 5 o 6 metri che, avendo capito che eravamo medici “in prima linea”, si è lamentata della nostra presenza dicendo che non dovevamo entrare, pur avendo ascoltato che avevamo entrambi fatto il tampone. Per strada leggo la paura negli occhi delle persone che mi conoscono, anche con la mascherina le persone si allontanano, è comprensibile.
Rosario, Coordinatore infermieristico:
Su questo aspetto ho scritto un post su Facebook, dove ho specificato che mi sarei ricordato di tutte le persone che mi hanno detto un grazie, mentre avrei dimenticato tutte quelle che non si sono fatte né vedere né sentire, per paura o per superficialità. Questo è il sunto di quello che ho vissuto io, ma credo che lo stesso valga anche per tanti altri. Ho notato la vicinanza di persone che non mi aspettavo fossero empatiche, ma anche la lontananza di amici, parenti, che non mi hanno detto nemmeno un “Ciao, come stai?”. Purtroppo ne terrò conto, perché non hanno colpito solo me, ma anche la mia famiglia.
In questa cornice di stress psicologico e fisico protratto, unitamente all’alto carico emotivo, ai lunghi orari, all’elevato rischio di contagio, alla mancanza di trattamenti efficaci, è frequente vedere emergere emozioni di paura, rabbia, ostilità, frustrazione e senso di impotenza, nonché insonnia, sintomi depressivi, stati d’ansia, ed è proprio in questa cornice che si può sviluppare, come si diceva poc’anzi, la sindrome da burn-out e il disturbo da stress post-traumatico.
Il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è una patologia che può svilupparsi in persone che hanno subìto o hanno assistito ad un evento traumatico, catastrofico o violento, oppure che sono venute a conoscenza di un’esperienza traumatica accaduta ad una persona cara. Può derivare anche da una esposizione ripetuta e continua ad eventi traumatici (tra i quali rientra l’epidemia da Covid) come accade agli operatori sanitari, ma anche ad altre figure professionali quali militari, membri delle forze dell’ordine, vigili del fuoco.
Il PTSD può manifestarsi attraverso:
- Sintomi intrusivi come ricordi, immagini, percezioni visive o sensoriali o sogni spiacevoli
- Evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico
- Marcata alterazione dell’arousal (stato emotivo-cognitivo di vigilanza) e della reattività agli stimoli, come ipervigilanza, ipersensibilità, comportamento irritabile o esplosioni di rabbia
- Alterazioni negative di pensieri ed emozioni, quali forti e persistenti convinzioni, pensieri distorti o incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento (APA, 2013).
In questi contesti di estrema fatica e complessità è fondamentale mettere in campo misure per fronteggiarne l’impatto psicologico. In generale un approccio multidisciplinare che comporti il coinvolgimento di più figure, quali il medico del lavoro, lo psicologo e lo psichiatra rappresenta l’approccio più appropriato.
Le attività devono essere in primo luogo concentrate nell’aiutare a contrastare la paura. Agli operatori sanitari è utile ricordare di non spaventarsi per il proprio vissuto che può apparire insolito o incongruo: in una situazione nuova e di emergenza è ovvio che le proprie reazioni emotive siano straordinarie e non coincidenti con quelle a cui si è abituati.
A chi si vergogna per le proprie emozioni, le proprie paure e i propri dolori, è opportuno ricordare che le emozioni non sono un’interferenza negativa, anzi, sono ciò che ci differenziano dai computer e dalle macchine. Un medico, un infermiere, un operatore sanitario che prova emozioni, che piange, è infinitamente un operatore migliore. È evidente che queste emozioni a volte sono dolorose e causano un’intensa sofferenza, ma non è possibile, anzi sarebbe un errore, eliminarle. Il dolore è una forma dei nostri legami. Il compito degli psicologi è dare un senso alle emozioni, aiutare ad elaborarle; ad esempio, aiutando ad accettare i propri limiti, a combattere i sensi di colpa eccessivi o fuori luogo, riconoscendo piuttosto che in natura nulla esiste di perfetto.
Gli psicologi innanzitutto ascoltano, il tempo dell’ascolto è essenziale, e poi provano a dare un senso alle emozioni, ad esempio, ricordando che occorre fare la propria parte, pur sapendo che a volte può non essere sufficiente; ragionare insieme su quale è la propria parte.
Un altro aspetto molto importante è la condivisione; poter raccontare a qualcuno la propria esperienza e le emozioni ad essa legate è utilissimo per poter preservare l’equilibrio psichico in futuro. In molti casi condividere le proprie emozioni può risultare difficile per gli operatori sanitari che, a volte, anche nel proprio ambito familiare, preferiscono non raccontare nulla per timore di caricare emotivamente gli altri.
Come abbiamo detto, oltre al superlavoro e allo stress legato anche al decesso di alcuni pazienti, c’è un ulteriore carico di tensione: la paura di poter essere portatori del disagio nella propria famiglia, con i propri figli o genitori. Questo rende impossibile rilassarsi. Vivono una sorta di dicotomia: sono percepiti come eroi, pur rifiutando in tanti e giustamente questa definizione, ricevono grande sostegno e solidarietà da parte della collettività, e questo è di grandissima importanza per il loro benessere, ma è sempre presente il timore di poter essere potenziali untori.
Per concludere, gli operatori sanitari, coinvolti in questa rete di gestione dell’emergenza, rappresentano i pilastri su cui si fonda la risposta all’epidemia da Covid. È, quindi, fondamentale investire quanto più possibile per proteggerne la salute fisica e mentale, ora e in futuro.
Antonietta Mariniello
Dirigente Psicologa A.O.R.N. dei Colli - Ospedale “D. Cotugno” - Napoli
Milena De Cenzo
Dirigente Psicologa A.O.R.N. dei Colli - Ospedale “D. Cotugno” - Napoli
Alberto Vito
Responsabile U.O.S.D. Psicologia Clinica A.O.R.N. dei Colli - Napoli
Vincenzo Sangiovanni
Direttore U.O.C “Infezioni sistemiche e dell’immunodepresso” A.O.R.N. dei Colli - Ospedale “D. Cotugno” - Napoli
Bibliografia
American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistic dei disturbi mentali (5a Ed.): DSM-5. Trad. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014.
Carnevali S., Lucchini A., Durbano F., Operatori psico-socio-sanitari ed eventi traumatici. Psichiatria oggi, anno XXXII, n.1, gen-giu, 2019
Galam E., Burnout des médecins libéraux – 1ère partie: une pathologie de la relation d’aide. Médecine, 3, 419–421, 2007
Vito A. (a cura di), Psicologi in Ospedale. Percorsi operativi per la cura globale di persone, Franco Angeli, Milano, 2016.
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