da Leadership Medica n. 3 del 2000
“Tutte le sostanze naturali fanno bene: ad esempio la stricnina”. Così inizio un articolo pubblicato dal “Corriere” una ventina d’anni fa, teso a gettare un po’ di ragionevole acqua fresca sui bollori idolatri dei neofiti seguaci di Messegué, da cui fumavano tisane, infusi, decotti d’ogni erba un fascio. Tanto più potenti nel beneficio, se correttamente usate, quanto potenti nel veneficio se prese troppo “allegramente”, per puro richiamo “alternativo”.
Su questa stessa direttiva oggi in Italia si è fatta avanti l’omeopatia, rendendo molto più sereno il lavoro dei Centri Antiveleni (esempio “nazionale” quello di Niguarda a Milano). Perché continua sì ad arrivare malconcia gente che ha sbagliato foglia, bacca o radice, ma il 50% degli interventi continua a riguardare bambini che si sono ingurgitati intere confezioni di medicinali lasciati incustoditi. Ma adesso che i medicinali che vanno per la maggiore sono quelli omeopatici, allora tutto si risolve in un grosso spavento per i familiari, che convinti che “faccia bene”, poi temono anche che “faccia male”, inconsciamente memori di un mai incontrato Paracelso.
Ma l’efficacia, per dir così, ad personam, delle preparazioni omeopatiche, ovvero le loro iperboliche diluizioni, sono la constatata garanzia che la infinitesima dose presente basta per indurci a star bene, ma non riesce, nemmeno complessivamente, ad interferire con la nostra salute. Giusto magari qualche reazione allergica, se la dose massiccia la ingolla un bambino ipersensibile proprio a quella sostanza; un po’ di nausea se c’è nux vomica o attenzione se c’era atropina...
Già: l’Atropa belladonna, la mortifera bella donna irremovibile, che radicata nel vino cura il morbo di Parkinson, però se non si sta attenti, in modo pure troppo definitivo. Certo: le erbe medicinali sono efficaci, tanto che gli si sta facendo spazio nel nostro SSN. Avranno anche loro il foglietto illustrativo (alias “bugiardino”) con indicazioni, controindicazioni e interazioni?
Perché, ricordiamocelo, se l’Omeopatia è l’arte della diluizione, invece quando si fanno decotti, infusi, tisane etc. delle erbe si estraggono e concentrano in tazza i principi attivi. Ovvero: attenzione a non concentrare dentro di sé l’azione, ovvero l’interazione, di erbe fra loro e con farmaci scoordinatamente.
L’Università di California a Los Angeles s’è premurata di diffondere un primo elenco di tali interazioni, cui è opportuno dare rinvigorita divulgazione.
Partiamo dall’iperico, di cui si è recentemente occupato il British Medical Journal, pubblicando i risultati di uno studio multicentrico randomizzato in doppio cieco da cui risulta che l’”erba di San Giovanni” ha la stessa efficacia dell’imipramina (e superiore al placebo) nel controllare sia l’ansia sia la depressione moderata, supera entrambi i farmaci nel migliorare lo stato fisico-generale.
Bene. A conferma, viene voglia di dire, dell’attività dell’iperico nell’organismo, da Los Angeles vengono due avvertimenti:
si rischia una sindrome serotoninica, se lo si abbina a farmaci serotoninergici; apparigliato a tetracicline, ne esalta la fotosensibilizzazione.
Per l’aglio c’è chi abbandona chi ne fa un uso troppo alitante e traspirante, e chi invece abbandona i farmaci antipertensivi e ipolipemizzanti affidandosi ai suoi più naturali spicchi, o alle denaturate capsule di concentrato inodore: sarà bene che si ricordino anche le proprietà di freno che l’aglio esercita sulla coagulazione sanguigna, che ne sconsigliano l’uso assieme ad altri antiaggreganti, anticoagulanti e ai diabetici in cui il sangue ha già una coagulazione difficoltosa. Analoghe cautele vengono segnalate per lo zenzero, che la farmacopea erboristica prescrive per “mal di viaggio” (cinetosi) e nausee in genere; postoperatorie, in gestazione, da chemioterapia.
E la gingko, ormai onnipresente, seppur con grafia e genere invertiti?
Vale in geriatria per sostenere la memoria e la circolazione negli arti inferiori, ma non va abbinata a FANS ed altri anticoagulanti, né con gli antidepressivi MAO-inbitori, seppur giova a sostenere la funzionalità sessuale contrastata proprio da certi farmaci antidepressivi.
Rimanendo in zona cervello, la bella-di-notte (alias anagra) fornisce un “olio” che non solo abbassa l’ipercolesterolemia, bensì pure i livelli d’efficacia di farmaci antiepilettici e antipsicotici.
Il primo protagonista sulla scena dei “ringalluzzenti” erboro/esotico/alternativi - partito da ammiccanti articoletti di riviste Playchevuoy e approdato a preparati in capsule accanto ai registratori di cassa delle farmacie - resta il ginseng. Già i cinesi raccomandavano di non farlo incontrare “nè con té né con ferro” (alimenti ricchi di ...); più modernamente a Los Angeles si afferma che la sua azione di stimolo nervoso e cardiaco, magari allontana l’impotenza, però sicuramente avvicina l’ipertensione, la tachicardia e l’iperglicemia: neanche il ginseng è raccomandabile per i diabetici, nei quali potenzia questi fattori di rischio aggiuntivi, frenando tuttavia l’azione di farmaci anticoagulanti...
La liquirizia: lo sanno tutti (o quasi) che ciucciata in continuazione, magari per tenere a bada tosse e voglia da fumo, ha effetti ipertensivi, tanto che la si consiglia a fanciulle e dame languidamente ipotese. Però, hanno fatto notare i californiani, il suo uso sistematico porta a deplezione potassica: non associarla a digissiuci e diuretici.
In conclusione. Giusto usare le erbe come farmaci - riprendendo e proseguendo da dove s’è cominciato - ma senza dimenticare che “pharmakon” significava innazitutto “veleno” e poi “medicamento”. E ricordando esattamente la frase intera di Teofrasto Bombast von Hohenheim detto il Paracelso (1493-1541), tedesco laureatosi in medicina a Ferrara, con studi particolari “sulle malattie del popolo”, e fu tra i primi a estrarre chimicamente dalle erbe i principi attivi, per concentrarne la potenza e conservarla più a lungo com’è a fresco, e non illanguidita dalla secchezza.
Teofrasto fu l’ultimo alchimista? Proviamo a pensare che fu il primo chimico. D’altro canto: l’arabo al-chimia ci ha dato la-chimi(c)a e l’inglese chemist non è forse il farmacista?
Dunque scrive Paracelso: “Tutte le cose sono veleno/e nulla è senza veleno./Solo la dose decide/o no/che qualcosa sia velenosa.”
Ricordatevelo per Messegué, ma dimentichiamocelo per l’”Arte di guarire” (1810) di Samuel Friederich C. Hahnemann: grazie alle loro submolecolari diluizioni i suoi prodotti omeopatici ricordano come stimolare il benessere, ma pur assunti in dosi massicce, con buona pace dei Centri Antiveleni, non ce n’è abbastanza per far star male: giusto chiamarli “medicinali” e non “fa.rmaci” Nato nel 1743, il tedesco di Sassonia Padre dell’omeopatia ha usato a fondo il concetto del suo conterraneo Padre della farmaceutica: ha ridotto talmente le dosi...
A tanti secoli di distanza c’è comunque un conto che non torna: le basi di Paracelso insistevano sulla medicina per il popoli, la medicina omeopatica ha prezzi popolari? Come Messegué?
Sergio Angeletti