da Leadership Medica n. 10 del 2005
Abstract
La mortalità per AIDS è progressivamente diminuita negli ultimi 9 anni e questo fatto viene attribuito principalmente alla terapia antiretrovirale. Verranno perciò esaminate le relative evidenze che abbiamo trovato molto carenti. Le ragioni principali stanno in alcuni risvolti statistici meno noti e nell’anomala impostazione degli studi di efficacia dei farmaci, con i quali si mira ad ottenere risultati in primo luogo su “marker surrogati” piuttosto che su benefici clinici. Altre opzioni potrebbero portare sia a progressi nella terapia sia ad una migliore comprensione di questa sindrome complessa ed articolata.
Sommario
- Introduzione
- 1. STORIA DELLA TERAPIA ANTIRETROVIRALE
- Valutazione dei dati inerenti alla attuale progressiva riduzione di mortalità dal 1996
- Valutazione rischio-beneficio del trattamento - Tossicità della HAART
- 2. VALIDITA’ DEI MARKERS SURROGATI
- 3. PROPOSTE TERAPEUTICHE ALTERNATIVE
Introduzione
Partendo dal presupposto che la base per ogni progresso conoscitivo è una consapevolezza critica delle precedenti acquisizioni con il riconoscimento degli errori passati, a tal fine proponiamo: 1) alcune considerazioni metodologiche sulle terapie antiretrovirali alla luce dei risultati via via ottenuti, 2) una discussione sugli attuali obiettivi della terapia (controllo dei markers surrogati), 3) una valutazione di proposte pratiche alternative.
Quello che appare evidente è che la terapia antiretrovirale ha subito negli anni importanti modificazioni, e che è stata osservata una marcata riduzione della mortalità per AIDS a partire dal 1996, anno di introduzione di nuove classi di farmaci. Tuttavia l’assunto che tale riduzione sia dovuta unicamente a questo fattore è molto riduttivo. Nella presente review ci proponiamo di dimostrarlo in tre brevi capitoli:
1) STORIA DELLA TERAPIA ANTIRETROVIRALE
Valutazione riduzione mortalità
Valutazione rischio – beneficio terapia
2) VALIDITA’ DEI MARKER SURROGATI
3) PROPOSTE TERAPEUTICHE ALTERNATIVE
1. STORIA DELLA TERAPIA ANTIRETROVIRALE
Sono stati pubblicati migliaia di studi per testare l’efficacia della terapia nell’infezione da HIV, tuttavia è singolare che quelli considerati metodologicamente adeguati siano rari ed abbiano invariabilmente dato risultati indifferenti o negativi per gli antiretrovirali.
E’ opportuno precisare fin dall’inizio che per valutare correttamente l’efficacia di un farmaco, è fondamentale vengano compiuti approfonditi studi preliminari e poi studi clinici metodologicamente adeguati (randomizzati, controllati con placebo, in doppio cieco), in modo da ridurre le possibili distorsioni (bias). Ricordiamo che un farmaco per l’AIDS (il ditiocarb), che sembrava promettente e che aveva superato positivamente diversi piccoli studi ben strutturati, venne ritirato dal commercio a causa di un solo studio negativo di più ampio respiro e potenza statistica, interrotto tra l’altro precocemente (1). Un provvedimento di questo genere è giustificato, sempre che le premesse siano corrette, poiché 100 verifiche positive non valgono una buona falsificazione, come ci ha insegnato il filosofo della scienza Karl Popper. Tuttavia in altre situazioni analoghe questo stesso principio non viene fatto valere. Dobbiamo inoltre constatare che attualmente: 1) per permettere una più rapida approvazione dei farmaci, si ricorre all’“approvazione veloce” (fast track approval) grazie alla quale le stesse fasi preliminari di sperimentazione e studio vengono drasticamente abbreviate sino a 24 settimane (2) (normalmente 5-10 anni); 2) che i trial clinici con caratteristiche adeguate sono rari e questi non mostrano vantaggi per i trattati (S. Garattini (3)); 3) che questi dal 1993 furono curiosamente aboliti per “motivi etici”, ovvero per non privare una parte di pazienti (quelli destinati al placebo nel gruppo di controllo), dei benefici degli antiretrovirali presi in esame. Ma tali benefici sono solo presunti e nient’affatto dimostrati. Per chiarirlo è sufficiente citare i risultati di alcuni studi, che possono essere considerati paradigmatici presso la comunità dei ricercatori e rivelatori dei periodi presi in esame.
A. (anni 1987-1990) Evidenza di inefficacia dell’ AZT per i soggetti affetti da AIDS.
Il primo farmaco antiretrovirale (l’AZT) è stato approvato in seguito ad uno studio - pubblicato nel 1987 e terminato prematuramente a 4 mesi dall’inizio - in cui risultava che la mortalità nei pazienti affetti da AIDS che avevano ricevuto placebo pareva di molto superiore rispetto ai trattati con AZT (19 a 1) (4), tuttavia lo studio stesso fu dimostrato sia fraudolento (5) sia pesantemente scorretto nella valutazione dei risultati (6). A conferma dell’assenza di efficacia, un follow up dello stesso gruppo di pazienti effettuato dai medesimi ricercatori, rivelò una mortalità elevata dopo pochi mesi (42,4% dopo 21 mesi), ed una mortalità minore per il gruppo che aveva assunto meno a lungo l’AZT (35% nello stesso periodo) (7,8) .
B. Evidenze di inefficacia dell’AZT nella profilassi dell’AIDS in soggetti asintomatici (anni 1990- 1995).
Nello studio che inaugurò nel 1990 l’uso dell’AZT nei sieropositivi asintomatici (Volberding (9)), i dichiarati migliori risultati in termini di sopravvivenza e di qualità della vita vennero rivisti dallo stesso autore 4 anni dopo: nel 1994 ammise che “il gruppo placebo in realtà aveva avuto un vantaggio su entrambi i gruppi in AZT nei termini di intervallo senza sintomi di malattia o tossicità, quando venivano conteggiati anche gli effetti collaterali minaccianti la vita” (10), affermazione che avrebbe dovuto essere consegnata alla pubblica discussione ben prima.
Vi fu ancora uno studio, l’ultimo in ordine di tempo, in cui era presente il gruppo placebo: il Concorde Trial (il trial della concordia che avrebbe dovuto sedare dubbi e polemiche e invece ha dato luogo a prolungate discussioni). Fu dimostrato un chiaro svantaggio nel gruppo di pazienti trattati precocemente con AZT (25% di morti in più anche se in parte per cause diverse dall’AIDS) (11).
Queste evidenze però non comportarono un adeguamento della condotta terapeutica, al contrario. (Rif. Box1)
BOX 1 Il risultato apparentemente illogico di tali deludenti risultanze fu che la quasi totalità del mondo della ricerca fece quadrato attorno alla stessa impostazione precedente evitando di tener conto dei dati a disposizione. Fu da allora che i gruppi di controllo con placebo non vennero più utilizzati nelle sperimentazioni ed i nuovi farmaci (inseriti nella categoria “salvavita”) vennero e vengono tuttora valutati tramite confronto con i precedenti, in una catena logica senza fine il cui primo debole anello resta appunto l’(in)efficacia dell’AZT. Ma vi è un’altra conseguenza, di non minore gravità, ossia che reali progressi vengano in tal modo oscurati dalla carenza metodologica delle premesse.
(1995-2003) La rivoluzionaria scoperta di David Ho. La terapia polifarmacologica.
La svolta venne dunque segnata da un articolo firmato da David Ho e pubblicato sul New England Journal of Medicine (12) nel 1995 in cui il ricercatore americano affermò con decisione che era venuta l’ora di colpire l’HIV precocemente e con forza con più farmaci, … poiché la monoterapia era destinata al fallimento (un’autorevole esplicita ammissione). Il sostegno alla sua tesi derivava da tre “pilastri scientifici”: 1) l’improvviso ritrovamento del virus in grandi quantità con i nuovi test (la PCR quantitativa, che segnalerebbe il Viral Load), 2) un nuovo studio in cui il trattamento con AZT nella prima fase dell’infezione sembrava portare un notevole vantaggio rispetto ai non trattati (13), 3) la disponibilità di altre classi di farmaci cioè gli Inibitori delle proteasi (Tre di questi vennero approvati dall’FDA in un tempo record: meno di tre mesi (14)).
Per quanto concerne il primo punto, l’utilizzo della tecnica PCR modificata per calcolare il Viral Load viene ritenuto da un grande esperto nonché suo scopritore, il premio Nobel Kari Mullis, invalida, un vero ossimoro (15). Comunque, sia alto o basso il viral load riscontrato, i linfociti infettati, che erano pochissimi prima del 1995 rimasero pochissimi (1:1000, 1:10.000) negli anni successivi anche se circondati da milioni di “particelle virali” (16).
Per quanto riguarda il secondo punto, lo studio citato da D. Ho (17) dimostrerebbe una risultanza paradossale dal punto di vista virologico, cioè un beneficio clinico per i pazienti e contemporaneamente nessun effetto contro l’agente causale della loro malattia. Infatti la durata e le caratteristiche della sindrome mononucleosica iniziale, nel momento di massima replicazione virale all’inizio della risposta immunitaria, fu la stessa in chi aveva assunto AZT e chi aveva assunto placebo. Lo stesso avvenne in relazione all’isolamento del marker surrogato P24 e le particelle di RNA rivelate dalla PCR (nessuna differenza significativa tra i due gruppi). Lo studio era comunque durato per pochi mesi iniziali di fronte ad una malattia con incubazione mediana stimata di 10-14 anni.
Per quanto riguarda il terzo punto, ossia la possibilità di diminuire marcatamente la diffusione dell’infezione trattandola nelle fasi iniziali, si trattava solo di una ipotesi, una supposizione da verificare, presentata però come una soluzione evidente di per sé.
Tanto bastò per ridar accelerazione all’enorme convoglio della profilassi e della cura con la HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy) per tutti i sieropositivi a tempo indeterminato, convoglio che stava rischiando di arenarsi col solo utilizzo dell’AZT.
Il successo iniziale fu notevole, tanto che venne coniata l’espressione “Lazarus effect” (18), ad indicare che le corsie degli ospedali si erano svuotate poiché i pazienti avevano registrato un miglioramento tale che non era più necessario ricoverarli frequentemente. In molti centri pressoché tutti i pazienti vennero trattati con HAART. In tre anni, dal 1994 al 1997, la percentuale in Europa dei pazienti non trattati diminuì dal 37% al 9%. Il numero di casi di AIDS si ridusse marcatamente e così l’incidenza di malattie opportunistiche (come la retinite da CMV, la Cryptosporidiosi, toxoplasmosi cerebrale) (19). Negli anni successivi però comparvero in tutta la loro evidenza problemi di tossicità multipla legati alla terapia “per tutta la vita”.
L’entusiasmo iniziale venne in parte ridimensionato (non più “colpisci duro, colpisci precocemente”) e gli attuali protocolli internazionali sono molto più restrittivi nell’indicare l’inizio della terapia, un riconoscimento che la strada indicata con tanto entusiasmo da Ho non era sostenibile.
Valutazione dei dati inerenti alla attuale progressiva riduzione di mortalità dal 1996.
Vi è indubbiamente una marcata diminuzione della mortalità in soggetti affetti da AIDS dopo il 1996, anno di introduzione dei “cocktail” (combinazioni di tre farmaci), ovvero per il sottogruppo di soggetti sieropositivi che abbiano già contratto una malattia opportunistica. La spiegazione non è tuttavia immediata trattandosi di un dato “grezzo”, che ingloba numerose variabili e fattori confondenti (riunisce per esempio chi ha assunto la terapia e chi no, chi è stato collaborativo con le indicazioni dei medici e chi no, chi ha fatto altre cure, chi la profilassi). Nelle acque torbide i contorni sono molto indefiniti ed ognuno crede di vedere la sagoma che desidera. In altre parole, la spiegazione del fenomeno è ostacolata dalla mancanza del cruciale confronto tra gruppi trattati e non, con una corretta randomizzazione.
Ad esempio, in due degli studi che sono più frequentemente citati a conforto di questa tesi (riduzione netta della mortalità rispetto al passato), il gruppo di controllo senza placebo era insufficiente ed inadeguato oppure assente. Inoltre la maggioranza dei soggetti negli studi era inizialmente asintomatica (ricordiamo che l’incubazione mediana ad AIDS senza terapia è di 10-14 anni, che corrisponde a 5% - 3,6% di incidenza annua):
Nello studio di Palella (20) gli autori trovarono che la mortalità in sieropositivi asintomatici (con meno di 100 CD4), trattati con antiretrovirali era dell’8,8/ 100 persone-anno. La mortalità risultava diminuita dopo l’introduzione degli inibitori delle proteasi.
Nel secondo studio di follow up di 1219 sieropositivi (87% inizialmente asintomatici) trattati con antiretrovirali, la mortalità era scesa al 6,7% all’anno, anche qui con una netta diminuzione dopo il 1996 anno di introduzione degli Inibitori delle Proteasi (PI). Ma gli Autori stessi fecero anche un'ammissione imbarazzante: i pazienti che avevano assunto inibitori delle proteasi avevano un rischio doppio di morire (anche se in un’analisi multivariata, il loro uso non modificava l’esito) (21). Evidentemente si tratta di risultati non in linea con gli attesi!
BOX 2 La definizione di AIDS negli Stati Uniti è differente da quella Europea, entrambe introdotte nel 1993: nella prima vengono inclusi anche i soggetti asintomatici con conta dei CD4 inferiore a 200/µL. Questo può render conto della minore mortalità visto che oltre il 60% dei casi di AIDS notificati in USA ogni anno rientra in questo sottogruppo (I), In Europa ed in Italia i soggetti asintomatici sono esclusi dalla nostra definizione di AIDS. In Italia tuttavia i dati epidemiologici confermano comunque una marcata riduzione della mortalità tra i soggetti sieropositivi già affetti da AIDS.
Fig.1 Il grafico mostra come la mortalità in Italia per soggetti affetti dalla sindrome, a distanza di 1-2-3-4 anni dalla diagnosi iniziale, si riduca negli anni dal 1988 al 2004 (per esempio: nel 1988 la mortalità a 3 anni dalla diagnosi era del 78%, nel 2004 era scesa al 16% circa).
Questa maggiore sopravvivenza è stata attribuita tout court all’uso di cocktail farmacologici, tuttavia anche altri fattori entrano in gioco come possibili cause di tali modificazioni nel tempo:
a) un riassortimento del tipo di pazienti rispetto al passato, con marcata riduzione della quota di tossicodipendenti, colpiti da maggiore mortalità (in Italia la quota di tossicodipendenti è diminuita dal 70 al 20%) (22); a conferma, nell’EuroSIDA study venne notato “un significativo declino delle morti nel tempo tra i pazienti che non assumevano terapia” (23) (questa è un’ulteriore dimostrazione come il confronto con quanto succedeva nel passato, in questo contesto, sia fuorviante).
b) un effetto benefico transitorio di uno o più componenti i cocktail (questo aspetto verrà sviluppato nel seguente capitolo) indipendentemente da quello antiretrovirale (24),
c) un effetto antibiotico protettivo nei confronti dei patogeni opportunisti da parte dell’HAART (25).
d) un miglioramento delle capacità profilattiche diagnostiche e terapeutiche degli specialisti;
e) esclusione dal conteggio dei decessi dovuti agli antiretrovirali in soggetti sieropositivi senza AIDS (in questo grafico sono conteggiati solo i soggetti con AIDS).
BOX 3 Due sono i quesiti per i quali sarebbe utile trovare una risposta chiara: quanti sono i sieropositivi che grazie ai farmaci non hanno contratto l’AIDS e sono vissuti discretamente bene? Quanti, invece, coloro che sarebbero rimasti a lungo asintomatici senza HAART e che invece ne hanno subito i pesanti effetti collaterali? Queste informazioni cruciali mancano per tracciare un bilancio, perciò si possono solo fare delle supposizioni in base a dati indiretti, con i limiti che questa operazione comporta.
Poiché molti pazienti hanno tratto beneficio dai farmaci, ci chiediamo se sia possibile isolare da questi le componenti che sono all’origine del loro miglioramento, riducendo nel contempo quelle inutili e dannose, molto rilevanti.
Valutazione rischio-beneficio del trattamento - Tossicità della HAART
I farmaci devono essere offerti solo in presenza di forti evidenze della loro vantaggiosità soprattutto quando il rischio è marcato (D. Sackett, il “padre” dell’Evidence Based Medicine (26)). A proposito degli antiretrovirali, è indubbio che siano stati in grado di risolvere situazioni cliniche che tempo addietro sarebbero state disperate, che sono riusciti a stabilizzare in discrete condizioni e per un tempo prolungato il tipo pazienti che tempo addietro erano destinati ad ammalarsi a ripetizione. Drastica è stata la riduzione delle malattie opportunistiche. Ma ai fini di una maggiore obiettività sarebbe indispensabile tracciare un bilancio obiettivo non solo a breve ma anche a medio e lungo termine.
Esamineremo perciò A) quale sia la tossicità dichiarata, B) l’effetto dell’HAART sui soggetti sieronegativi, C) l’EuroSIDA study D) lo studio americano sugli avventi avversi di grado IV, E) i long term non progressors.
A) Tossicità dichiarata
Gli eventi avversi previsti ed elencati nei prospetti informativi sono innumerevoli, colpiscono i pazienti in un’alta percentuale di casi, alcuni si manifestano precocemente, più spesso tardivamente, sono di intensità da modesta (es: nausea) ad elevata con rischio per la vita (es. acidosi lattica), colpiscono il sistema gastrointestinale (es: diarrea), il sistema emopoietico (es: anemia), ma anche quello nervoso (es: nevriti) e quello cutaneo (severe allergie); possono causare lipodistrofia ed insufficienza epatica progressiva.
B) HAART a soggetti “non infetti”
Nelle avvertenze relative a farmaci in questione viene anche precisato che i sintomi della tossicità possono essere confusi con quelli dell’HIV. Per non correre questo rischio, niente di meglio allora che controllarli su soggetti sani non infetti. L’occasione ce la forniscono gli infortuni sul lavoro, e le relative statistiche della profilassi post-esposizione. In quelle italiane ad esempio (27), risulta che: “Effetti collaterali erano lamentati nel 63,2-66,5% dei casi; l’interruzione a causa di essi si verificava nel 28,7-32% dei casi dopo 7-8 giorni (mediana)”. Si trattava di soggetti sani da trattare per un mese! Nessuna differenza tra vari protocolli si verificava nelle proporzioni di lavoratori che sospendevano la terapia.
C) L’EuroSIDA Study: tossicità HAART “trascurabile”.
Sarebbe molto strano allora constatare che questi effetti collaterali, così previsti e così frequenti nei sani, dovessero risultare alla fin fine trascurabili nei sieropositivi.
Eppure proprio questo si afferma in un ampio studio multicentrico prospettico (EuroSIDA study (28)), composto da 5 ampie coorti di sieropositivi: nel corso degli anni (dal 1995 al 2002) viene rilevata una netta riduzione della mortalità e dell’incidenza di AIDS (sino a un quindicesimo rispetto all’era pre-HAART (29)). I risultati sembrano rassicuranti anche perché “problemi di eventi avversi seri, […] non hanno alterato la mortalità e la morbilità nella popolazione”, la differenza tra mortalità totale e da HIV risulterebbe infatti minima. E’ curioso che in altra sezione sono gli stessi autori del medesimo studio ad affermare che, di fronte ad una diminuzione di mortalità per AIDS di 23% annuo, vi era un “aumento del 32% annuo di altre cause di morte” (dove per “altre” deve intendersi: principalmente effetti collaterali dell’HAART).
Tuttavia a) una buona parte di pazienti ha CD4 superiore a 200 (molti > a 500) ed è inizialmente asintomatica, b) vengono considerati come “trattati” per tutta la durata dello studio anche coloro che hanno assunto i farmaci per pochi giorni, d) non si sa quanti li abbiano assunti per l’intero periodo di osservazione, quanti li abbiano sospesi e quanto a lungo li abbiano sospesi, e) manca il gruppo di controllo perciò non si comprende come venga utilizzato un metodo statistico come l’Intention to Treat Approach che espressamente lo prevede, f) non viene incluso nel calcolo il gruppo non trascurabile dei persi al follow-up” (30).
A nostro avviso si tratta di un’analisi molto elaborata che suscita più interrogativi e perplessità di quante ne risolva.
D) Eventi avversi di grado 4.
Un contributo più chiaro alla comprensione dei vari fattori in gioco viene da uno studio pubblicato su JAIDS nel 2003 su oltre duemila pazienti sieropositivi (di cui 60% inizialmente asintomatici) trattati con HAART (31). L’incidenza di reazioni avverse gravi era il doppio delle malattie opportunistiche (675 contro 332); parimenti vi furono più decessi per eventi legati alla tossicità che per le malattie opportunistiche (153 contro 117). La mortalità in caso di evento avverso era dunque alta, del 22,7%. E’ importante notare che ben 201 pazienti del tutto asintomatici con CD4>200 ebbero una grave tossicità e 84 di questi morirono a causa dei farmaci senza aver mai avuto malattie opportunistiche.
NB: Non manca, infine, qualche discordanza nelle cifre riportate nello studio e nelle tabelle.
BOX 4 Ci sono ulteriori importanti considerazioni da fare: a) i morti per tossicità grave in assenza di AIDS non possono a rigore essere conteggiati tra i morti per AIDS. Di questo bisogna tener conto nei grafici della mortalità: sono morti che lì non appaiono; b) è facile che pazienti deceduti per tossicità vengano conteggiati tra i morti per AIDS se in precedenza avevano avuto una malattia opportunistica (soggetti con AIDS ma deceduti per cause iatrogene); c) dallo studio risulta chiaramente che quanto più a lungo un paziente aveva assunto farmaci tanto più era probabile che andasse incontro a tossicità grave (30,8% dopo 36 mesi), con marcata progressione nel tempo.
Fig.2 Probabilità di AIDS o avventi avversi nei trattati (Reisler RB et al. JAIDS 2003;34:379-86).
La probabilità di un evento grave da HAART è circa il doppio di una infezione opportunistica, con un incremento notevole nel tempo (il tasso di mortalità sarebbe, secondo lo studio, simile nelle due eventualità).
Volendo compilare una statistica di mortalità per AIDS con i dati dello studio in esame, la mortalità in un periodo di 20,7 mesi (mediana) risulterebbe (come da tabella seguente) maggiore per le cure che per la malattia.
E) Long Term Non Progressors
Un'altra osservazione degna di nota è che invariabilmente tutti i LTNP (sieropositivi sani da lungo tempo - Long term non progressors -) segnalati in letteratura negli anni prima del 1995 (32), ma anche più recentemente fino al 2004 (33), non avevano assunto antiretrovirali.
Conclusioni
Pur essendo verosimile un apporto positivo correlato alle nuove terapie, la cautela è d’obbligo poiché terapie nel passato ritenute valide, nel tempo si sono dimostrate svantaggiose (D. Sackett), come si è verificato per l’AZT. Nell’epoca in cui tutti i ricercatori sono a parole sostenitori ed attenti utilizzatori della “medicina basata sull’evidenza”, l’evidenza qui manca, e continua a non essere cercata. Talvolta gli aspetti poco presentabili vengono anche sapientemente “ammorbiditi”, come constatato nell’EuroSida study.
2. VALIDITA’ DEI MARKERS SURROGATI
Come riferito nel precedente paragrafo, gli studi clinici randomizzati controllati con placebo hanno portato a risultati complessivamente negativi e dal 1992 non ne sono stati più iniziati altri. Inoltre gli obiettivi (end points) clinici sono stati sostituiti da obiettivi laboratoristici, (i “marker surrogati”), che avrebbero dovuto rispecchiarli fedelmente.
BOX 5 Le caratteristiche del marker surrogato ottimale
Il marker surrogato deve avere le seguenti caratteristiche per essere di utilità pratica: a) avere una chiara, logica, patofisiologica associazione con la malattia, b) avere un ruolo ben definito nella storia naturale della malattia, c) essere ritrovabile nella maggior parte degli individui affetti, d) cambiare con lo stato clinico in modo misurabile (sia nella progressione che nella regressione della malattia), e) modificarsi coerentemente con il successo o l’inefficacia del trattamento terapeutico.
Per l’infezione da HIV il marker surrogato di riferimento è la carica virale (viral load o VL) ovvero la quantità di particelle virali ritrovate nel sangue con la metodica della Polymerase Chain Reaction quantitativa. Così è per i protocolli terapeutici che tengono conto anche del conteggio dei CD4/mm3.
I farmaci vengono tuttora approvati dalla FDA americana (e di riflesso in tutto il mondo) sulla base del loro effetto sul VL (34). Il “resto” della valutazione è affidato al post marketing (35)!
Viral Load ed altri marker
Gli studi di efficacia di nuove combinazioni vengono dunque impostati verso una soppressione virale più marcata possibile. L’inserto pubblicitario di un farmaco recentemente introdotto (enfuvirtide) lancia il seguente messaggio: “detectable is unacceptable” focalizzando l’attenzione sul viral load che dovrebbe essere azzerato. In altre parole, nonostante la patente inadeguatezza, il primo target della terapia continua ad essere lo stesso da 10 anni.
Il viral load, si è rivelato essere un indice spesso poco significativo sia per ciò che concerne il grado di competenza del sistema immunitario che l’evoluzione clinica. Negli studi che lo considerano, la discordanza tra CD4 e viral load, ovvero l’aumento dei CD4 nonostante la mancata riduzione della carica virale, avviene in un numero rilevante di casi (36). Sull’argomento un gruppo di ricercatori così concludeva: “Queste osservazioni sollevano anche perplessità circa l’enfasi sui livelli di HIV RNA quale marker surrogato nei trial clinici. (37)
BOX 6 Ecco alcune delle numerose osservazioni riportate in letteratura:
In uno degli studi citati (II), “le cellule T CD4(+) e CD8(+) (incluse le sottopopolazioni memoria e progenitrici) erano aumentate in modo similare tra i pazienti con viral load plasmatici persistentemente diminuiti, diminuiti transitoriamente, o non diminuiti affatto. In un altro studio (III),i risultati attesi si verificavano solo nel 34% dei casi (viral load basso e CD4 aumentati) e nel 9% dei casi (viral load alto e diminuzione dei CD4).
Paradossalmente, il viral load non è correlato alla percentuale di cellule infette, tanto che secondo recenti pubblicazioni il n° dei CD4 infettati si limita a 1:1000, 1:10.000 (IV) e la riduzione delle diverse popolazioni di linfociti (tra cui i CD8) è attribuita necessariamente a meccanismi diversi dal cell killing virale diretto (V). Recenti pubblicazioni confermano che il cell killing diretto dell’HIV non possa spiegare la riduzione dei linfociti e delle cellule progenitrici (VI).
Le cellule progenitrici che pur vanno incontro ad una riduzione della loro capacità rigenerativa non sono infette (VII).
Secondo altri studi, una viremia elevata e scarsa immunoattivazione sono associati a scarsa apoptosi cellulare (VIII) e, di converso, l’immunoattivazione cronica anche quando è associata a controllo della viremia porta a progressione clinica (IX)
Si può concludere che il VL è un marker ben poco affidabile ed erratico poiché i risultati inattesi od incongrui superano di gran lunga il 4-6% (scarto che potrebbe considerarsi tollerabile). Se miglioramenti clinici ed immunologici possono verificarsi a prescindere dal VL, allora sarebbe logico che fosse sospeso il suo uso nel processo di approvazione dei farmaci per la “malattia da HIV” e che si facesse riferimento ad altri parametri più significativi.
Probabilmente non ci sono marker ottimi, perciò è imperativo mantenere comunque il riferimento agli endpoint clinici come lo stato di benessere, la qualità di vita, l’incidenza di malattie ed effetti collaterali, la mortalità (38).
Migliori indicatori rispetto al VL sembrano essere:
a) il conteggio dei CD4 nel sangue, (39) l’aumento o la riduzione dello stato di immunoattivazione cronica (40), accompagnata dalla produzione eccessiva di determinate citochine (41), lo shift Th1-Th2 (42), i cell health indicators e lo stato di ossidoriduzione (43).
Bisogna tener presente che lo stesso conteggio dei CD4 non è correlato perfettamente all’efficienza del sistema immunitario, per esempio malattie opportunistiche possono colpire anche soggetti con CD4 >200 (la toxoplasmosi cerebrale colpisce il 9% e la PCP il 14,5% dei soggetti con più di 200 CD4, anche con terapia antiretrovirale pre-AIDS, dati italiani Centro Operativo AIDS, dal 1999 al 31/12/04), mentre alcuni soggetti possono restare a lungo asintomatici con CD4 < a 100.
Lo stato di immuno attivazione cronica è caratteristica in soggetti sieropositivi che vanno incontro ad un rischio di deterioramento delle loro condizioni (44).
L’immunoattivazione cronica anche quando è associata a controllo della viremia porta a progressione clinica (45),
Gli indicatori dello stress ossidativo giocano un ruolo importante. Passi ha osservato che lo stress ossidativo su vari parametri era progressivamente più marcato tanto più era marcata la immunodeficienza (46)
3. PROPOSTE TERAPEUTICHE ALTERNATIVE
Farmaci immunomodulanti
Gli stessi A. Fauci, direttore dell’NIAID statunitense (47), e L. Montagnier (48), oltre a numerosi altri ricercatori, hanno evidenziato l’utilità del controllo della immunoattivazione cronica e degli stress ossidativi nell’infezione da HIV e proposto un trattamento mirato a questi obiettivi: vi sono farmaci che sarebbero in grado di controllare l’immunoattivazione (ed indirettamente il miglioramento delle condizioni immunitarie, la stessa infezione da HIV e le condizioni cliniche). Tra questi:
a) Antiossidanti: l’utilizzo di antiossidanti ha avuto un’enorme eco, tuttavia bisogna tenere presente i risultati sono stati spesso deludenti. Questo può essere spiegato con il fatto di aver utilizzato un solo antiossidante o aver somministrato dosi incongrue di sostanze che possono trasformarsi in pro-ossidanti nell’organismo. Una ipotesi più convincente è quella di Siro Passi il quale sostiene che una adeguata correzione dietetica associata ad un pool di antiossidanti naturali, commisurati ai deficit riscontrati, porta ad un beneficio reale in termini di inibizione della progressione di malattia. Piccoli studi controllati hanno dimostrato una buona efficacia della dieta integrata nel ristabilire normali livelli di antiossidanti (49). Nella stessa direzione vanno altre interessanti ed articolate ipotesi: quelle di Eleni Eleopulos Papadopulos (50) ed Heinrich Kremer (51).
b) gli stessi farmaci antiretrovirali sembrano possedere attività sopra menzionate (52). E’ possibile e verosimile che tale effetto sia ottenibile con dosaggi più bassi e differenti associazioni rispetto a quelle usate secondo gli attuali protocolli mirati ad ottenere un controllo del VL.(53). I farmaci anti-HIV hanno non solo un effetto antiretrovirale, ma anche uno di modulazione della immuno-attivazione e questa viene da loro controllata o ridotta (54)
c) alcuni farmaci antinfiammatori hanno effetti sul controllo della immunoattivazione: cortisonici a basso dosaggio (55), acido acetil salicilico (56), salazopirina (57). Potrebbero essere individuati analoghi più mirati con minori effetti collaterali.
BOX 7 Riassumendo, così potrebbe essere impostata la terapia:
1) individuazione e correzione di stili di vita malsani (problema affrontato principalmente da numerosi scienziati dissidenti, tra cui P Duesberg, E Eleopulos, J Lauritsen, S Passi, L De Marchi, H Kremer);
2) Attuazione di una dieta adeguata e ricca (S Passi);
3) individuazione (cell health indicators) e correzione dei deficit metabolici (S. Passi, H. Kremer);
4) Utilizzazione di farmaci antiretrovirali solo se vi sia una decisa tendenza al peggioramento delle condizioni e immunità (CD4 < a 200 e segni importanti di immunoattivazione e immunodepressione, malattie opportunistiche) e per periodi limitati;
5) Per quanto riguarda i farmaci antiretrovirali, noi ipotizziamo che combinazioni meno onerose (uno o due farmaci) a dosi in grado di controllare aspetti metabolici cruciali potrebbero essere indagati (ad esempio l’uso in monoterapia di inibitori delle proteasi, di cui è già segnalato qualche positivo riscontro ex-vivo (dosi 30 volte inferiori di quelle indicate in terapia sono in grado di aumentare la sopravvivenza delle cellule ematiche periferiche(X) e clinico (XI);
6) Reintroduzione di seri criteri di studio dei farmaci, inclusi i trial clinici randomizzati con placebo in doppio cieco (“scomparsi” da oltre 12 anni), eliminando le comode scappatoie del fast track approval.
Si propone di meglio valutare gli end-point clinici e loro correlazione con: a) parametri di immunoattivazione; b) quelli relativi alle condizioni di ossidoriduzione ed altri cell health indicators; c) il conteggio dei linfociti e CD4; d) la reattività al test di immunità cellulare (Multitest); e) dosaggio delle citochine. Può essere preso in considerazione l’utilizzo di farmaci antiretrovirali a dosi minime efficaci per controllare i parametri menzionati non il VL, in uno schema che preveda sospensioni a miglioramento consolidato. Farmaci dunque non necessariamente assunti per tutta la vita.
Post Scriptum
La terapia antiretrovirale nell’“infezione da HIV” è stata ampiamente criticata nel passato nel suo razionale e nella pratica clinica da ricercatori “dissidenti” (E. Eleopulos - P. Duesberg) alle cui argomentate asserzioni non sono seguite confutazioni scientifiche e che segnaliamo per approfondimenti (58).
Fabio Franchi
Specialist in Hygiene, Preventive Medicine
and Infectious Diseases in Trieste, Italy
Note
I HIV/AIDS Surv Rep dec 1996
II Lu W. Et al. Blood 2000, op.cit.
III VL alto CD4 invariati o aumentati
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